L’Economia, 8 gennaio 2018
Investimenti perduti
Non è una questione di fondi limitati, bensì di efficienza della spesa e di capacità di progettazione. Possiamo riassumere così il tema della carenza di investimenti pubblici nel nostro Paese. Investimenti sacrificati alla necessità di non comprimere la spesa corrente, ma soprattutto dispersi nei meandri inefficienti e paludosi delle amministrazioni pubbliche, soprattutto locali. Insomma, soldi non raramente buttati via. Emerge poi un’amara verità: abbiamo perso per strada il genio civile o ve ne sono rimaste poche e insufficienti tracce.
Se negli ultimi anni gli investimenti pubblici – comprendendo in questa definizione anche quelli che stanno fuori dal perimetro della pubblica amministrazione come ferrovie e aeroporti – non fossero stati ridotti ma soprattutto male impiegati, se soltanto si fossero rispettate le tabelle, con importi e tempi, delle varie leggi di Bilancio, oggi il ritmo di crescita del nostro Paese sarebbe intorno al 2%. Cioè cresceremmo a una velocità di un quarto superiore a quella attuale con percettibili aumenti di produttività. Saremmo in linea con il resto dell’Europa. Senza aver fatto salti mortali, solo mostrandoci disciplinati e responsabili. Senza sprechi e, spesso, ruberie. Il problema del Paese è in sintesi estrema tutto qui. Paradossale.
Notava già Mario Draghi nell’introduzione a un paper della Banca d’Italia del 2011 ( L’efficienza della spesa per infrastrutture ) che il «ritardo del Paese non è riconducibile a una carenza di spesa» e che, come dotazioni, il nostro Paese era sostanzialmente in linea con i principali partner europei. Contava allora come oggi la qualità della programmazione. In un altro studio della Banca Centrale del medesimo periodo ( Le infrastrutture in Italia, dotazione, programmazione, realizzazione ) si poteva leggere, che «l’efficiente esecuzione delle opere è ostacolata da carenze progettuali, normative e di monitoraggio».
Negli anni successivi, purtroppo, gli investimenti pubblici, sono continuati a scendere. Mentre il totale delle uscite correnti, al netto degli interessi, è cresciuto da 584 miliardi nel 2006 a 704 nel 2016, le uscite in conto capitale sono precipitate da 84 miliardi nel 2006 a 58 nel 2016. I dati finali del 2017 non sono ancora disponibili ma alla Ragioneria generale dello Stato sarebbero felici di constatare quantomeno, l’arresto della caduta. Siamo ormai intorno al 2% d’investimenti pubblici diretti sul prodotto interno lordo (le spese in conto capitale sono un po’ più alte). Il minimo storico. E di cose da fare ce ne sarebbero tantissime: dagli interventi contro il dissesto idrogeologico alla ristrutturazione di scuole, strade, infrastrutture di ogni genere. La fusione tra Ferrovie e Anas promette di realizzare – secondo gli auspici del ministro dei Trasporti Graziano Delrio – cento miliardi d’investimenti, soprattutto al Sud, in dieci anni. Ma è proprio la fusione fra i due gruppi a mettere in risalto il principale problema che spiega la relativa inefficacia degli investimenti pubblici. Basta confrontare l’alto contenzioso legale di Anas con quello, assai più in linea e fisiologico, di Rete ferroviaria italiana, per far emergere la drammatica incapacità di progettazione. A livello locale il fenomeno assume forme endemiche.
Lo scenarioNegli anni recenti, complici le crisi di bilancio, ma non solo, gli uffici tecnici delle amministrazioni comunali sono stati smantellati o impoveriti. L’attrazione di tecnici e ingegneri si è ridotta, quando non scomparsa. Al punto che il governo, con il decreto legge 50 del 2017 e con la recente legge di Bilancio, ha stanziato fondi per pagare la progettazione degli enti locali. Sono stati riservati 30 milioni all’anno, soprattutto per i comuni delle fasce sismiche più esposte. Elevate le domande. Mancavano, in molti casi, più i progetti dei soldi.
Un provvedimento di svolta nel tentativo di far riprendere gli investimenti pubblici è quello del decreto del 21 luglio del 2017 che ha ripartito fra i vari ministeri il fondo di circa 47 miliardi nel periodo 2017-2032 previsto dalla legge di Bilancio del 2017. Gli esborsi, come si sa, sono assai limitati nei primi anni. Non si tratta di un tesoretto, ma della volontà di mettere i vari ministeri nella condizione di programmare su scadenze più lunghe. Quasi la metà della somma complessiva va alle infrastrutture e ai trasporti, ma relativamente poco – ed è sorprendente – alla ricerca e all’istruzione. Va ricordato però che nei giorni scorsi, il ministro dell’Istruzione Valeria Fedeli ha firmato il bando per i progetti di ricerca d’interesse nazionale (Prin). Sono circa 400 milioni in parte recuperati dai fondi non spesi per l’Istituto italiano di tecnologia (Iit) di Genova.
La legge di Bilancio per quest’anno rimpolpa questo già rilevante polmone finanziario, con la previsione di una spesa aggiuntiva di 37 miliardi nel periodo 2018-2033. Bisognerà vedere se il relativo decreto di assegnazione dei fondi, sulla base delle necessità dei vari ministeri, sarà varato nei prossimi mesi nonostante il periodo elettorale. E soprattutto se non continuerà, com’è accaduto negli anni scorsi, il drenaggio di risorse per soddisfare impegni urgenti di spesa corrente a danno degli investimenti programmati. Le Regioni, nell’anno appena finito, hanno investito meno, in termini di cassa, che nel 2016, nonostante abbiano ottenuto varie anticipazioni da parte dello Stato.
Sono crollati in questi anni soprattutto gli investimenti degli enti locali. Il superamento del patto di Stabilità interno consentirà, nel periodo 2017-2023, una spesa complessiva di 5,3 miliardi alle amministrazioni comunali che hanno cassa, anche al di fuori della regola del pareggio dei conti. È stato creato, con l’ultima Legge di Bilancio, comma 468, un piccolo fondo per consentire ai comuni, soprattutto del Sud (la cassa libera è quasi sempre al Nord), di investire in lavori – con un limite complessivo in un triennio di 850 milioni – se vi sono delle emergenze in zone a carattere sismico.
Ma il punto vero rimane quello sottolineato all’inizio dalle parole di Draghi. I fondi non mancano – sempre che non siano via via sottratti per esigenze correnti – il problema è spenderli bene. L’idea di una struttura centrale di un centinaio di ingegneri che potesse orientare al meglio i progetti, è stata purtroppo bocciata. Il nuovo codice degli appalti non aiuta, anzi. L’alta velocità ferroviaria ha cambiato in profondità le abitudini degli italiani ed è una leva di produttività. Ma sono troppi dieci anni per portarla per esempio da Brescia a Padova.
Si tratterà dunque di farli bene e in tempo i progetti. Altrimenti rischiano di essere inutilmente costosi. O di invecchiare anzi tempo. Ma soprattutto sarà necessario sottrarre gli investimenti al ciclo famelico della politica che privilegia la spesa immediata, nell’illusione che porti consenso. Non sarebbe male se, in questa convulsa campagna elettorale, qualcuno prendesse l’impegno di non stracciare questi programmi ambiziosi e sconosciuti. Piccolo particolare: sono investimenti che premiano soprattutto aziende italiane, il lavoro italiano.