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 2018  gennaio 07 Domenica calendario

Le meraviglie della Queen’s Mary Dolls House, il meglio degli anni ’20 in scala 1:12

L’unica, vera, sofferenza te la dà il fatto che non puoi toccare – e vabbé questo ci sta –, ma proprio che non ti puoi avvicinare più di tanto. Racchiusa in una sala del castello di Windsor, storica residenza della regina inglese (da questo castello ha preso il nome attuale la casata regnante in Inghilterra, lasciando l’originario e teutonico Sassonia-Coburgo-Gotha), le vetrate che la circondano, il “fossato” architettonico e la luce fioca nella quale deve essere tenuta te la fanno ammirare, questa meraviglia unica al mondo, ma non te la fanno godere appieno. E, infatti, la «Queen’s Mary Dolls House», la casa di bambole della regina Mary (di Teck), la capisci al volo quando la vedi per la prima volta (ed è un oh di puro stupore), meglio quando leggi e ricostruisci i dettagli (ed è un gesto di riconoscimento di quanto e quale lavoro ci sia voluto), e nella sua pienezza quando ti concentri davvero e cerchi di carpire i segreti di un tale miracolo di eleganza, verosimiglianza (no, di più, di realtà; perché questa casa non simula, è un originale), racchiuso in scala 1:12; un capolavoro che ti permette di tornarci più e più volte sopra, senza finire di esserne ammaliato. 
Il fatto è che gli inglesi queste cose le sanno fare. E anche se è vero che se a commissionarti una tale sfida è la famiglia reale, e tu fai in modo che tutto sia più che perfetto, qui siamo ben oltre il fatto tecnico: c’è, e lo cogli dappertutto, l’orgoglio del saper fare e la volontà di dimostrare che quando si “gioca” (come si fa qui, in fondo), ma al massimo livello, non si può che essere serissimi. Andiamo con ordine. Prima di tutto va ribadito: questa non è una casa di bambole (al limite è un palazzo reale di bambole). La verità è che qui non c’è niente che sia destinato al gioco di una bambina, per quanto possa essere importante una regina. La regina Mary, moglie di Giorgio V, era un’amante dell’arte; l’idea di regalarle, siamo nei primi anni 20, la casa in miniatura deriva dalla voglia, però, di “fotografare” il genere “casa di bambola” al suo meglio. Non è un caso che il progetto, fin dall’inizio, sia sontuoso. Viene affidato a sir Edwin Lutyens, massimo architetto reale inglesi dell’epoca (in quegli anni progetta il palazzo del viceré a New Delhi), che prende a cuore la cosa e la realizza al massimo.Oltre 1.500 persone per fare circa mille oggetti in miniatura: tutte le aziende che forniscono la real casa vengono chiamate a contribuire secondo la rispettiva specializzazione e forniscono il meglio del meglio. Lo stato dell’arte in ogni cosa.
Nessun dettaglio è trascurato: l’impianto di illuminazione, gli ascensori e gli scarichi minuscoli dei bagni funzionano, come funziona il microgrammofono. Minivinili suonano gli inni inglesi e, nella libreria, ovviamente la mia parte preferita, vengono custoditi oltre 200 volumi. Non solo non sono “finti”: sono lavori di 171 autori, tra i quali Kipling, Edith Warthon e Conan Doyle scritti appositamente (la Woolf e Shaw però rifiutarono). Il creatore di Sherlock Holmes regala un inedito con una simpatica disfida tra Watson e l’investigatore; tra i libri illustrati un delizioso “Fougasse” (nome vero Kenneth Bird, direttore di «Punch», tra i più celebri cartoonist dell’epoca) e, tra le riviste, un numero di «Country Life», ovviamente realizzato per l’occasione. Funzionano i motori delle auto, sono ricamate con i monogrammi della regina le minuscole lenzuola (!), i pittori dell’epoca riproducono in miniatura loro lavori, le stanze sono tutte arredate con mobili realizzati dai migliori artigiani arts and crafts, ma con i più moderni standard (infatti c’è un aspirapolvere elettrico nello sgabuzzino) e secondo le gerarchie che in un palazzo del genere dovevano essere rispettate: servitù e spazi di gala sono esattamente come dovevano essere. Le dispense, poi, impagabili: i vasetti di marmellata sono pieni di vera confettura dell’epoca (direi ora inservibile) ma se mai in futuro qualcuno potesse aprire una delle 1.200 bottiglie di una enoteca da sogno, che comprende il meglio dell’epoca (1906 Veuve Clicquot, 1911 Louis Roederer, 1875 Ch. Lafite, 1888 Ch. Haut Brion, 1899 Ch. Margaux, 1878 Cockburn’s, 1896 Taylor’s, 1889 Montrachet, 1904 Romanée, 1874 Ch. d’Yquem e così via), scommetto che degusterebbe ancora dei grandi vini. Senza potersi ubriarcare ma brindando certo al genio umano, capaci di grandi cose, anche in piccolo formato. Ma che mirabilia!