Il Messaggero, 7 gennaio 2018
«A volte un’icona può dare fastidio». Intervista a Carla Fracci
Carla Fracci non è soltanto la ballerina che ha scritto la storia della danza italiana. Carla Fracci è anche tanto altro. Una vita spesa sul palcoscenico. Una vita accanto l’inseparabile marito, il maestro Beppe Menegatti. Dalle foto con Eugenio Montale alla teca con la scarpina usata quando stava in punta («ora non ci sto più»), da Charlie Chaplin alla regina Elisabetta. Ai pax de deux con partner come Rudolf Nureyev o Erik Bruhn. Il ricchissimo mondo di Carla Fracci, 81 anni, è racchiuso nelle pareti della sua casa milanese.
Si sente un’icona?
«Il termine mi imbarazza. È un orgoglio avere ancora oggi l’affetto e la stima delle persone. Essere fermata per strada e percepire riconoscenza. La gente si ricorda ancora di quello che ho fatto, non solo alla Scala. Come un fermo immagine di quando stavo in punta o come quando volavo come farfalla».
È stata l’immagine della cultura italiana. Perché stupirsi?
«La danza è un lavoro così rispettoso che anche se stavo in punta, i piedi li ho sempre tenuti per terra. Il teatro non è facile. Bisogna ricordarsi da dove si viene e come si è cresciuti. Cultura significa tante cose: distinguersi da chi sa fare le cose bene e chi non le sa fare. Vuol dire impegnarsi, con serietà e senza leggerezza. Mia nonna diceva sempre: «La cultura la fa casca’ la dittatura».
Il bianco il suo tratto distintivo?
«Perché è un colore che riflette. Che illumina. Le donne vestite di bianco hanno una luce diversa. E poi è il riferimento del mondo della danza. E per me, anche il simbolo di due grandi balletti cui la mia storia è legata. La Sylphide e Gisele».
Lei, dalla campagna ai più grandi teatri di tutto il mondo.
«Sembra una favola. Ma è stato un caso trovarmi in teatro. Prima di trasferirmi a Milano, vivevo a piedi nudi tra i campi, a giocare con gli animali. Un giorno, una signora che aveva il padre orchestrale alla Scala disse ai miei genitori che non avevo solo tanta musicalità. E consigliò loro di iscrivermi a una scuola di danza. Da quel momento, è iniziata per me la scoperta, la volontà di apprendere, il ricercare punti di riferimento. Io il teatro non sapevo cosa fosse. E mio padre, sebbene appassionato di opera, non avrebbe mai immaginato la mia carriera».
Che cosa sapeva della danza?
«Non sapevo nulla. Pensavo di andare a ballare il valzer, il tango o la rumba, come facevo con i miei. Invece, era tecnica, disciplina, interpretazione. Solo chi respira la polvere del teatro può veramente vivere il palcoscenico. Ricordo ancora quando Margot Fontayn mi scelse come comparsa per La Bella Addormentata alla Scala. Fu lì che conobbi Frederick Ashton che durante le prove corresse la posizione del dito mignolo della ballerina. Qui ho capito l’importanza di un maestro. Sono stata fortunata: la mia curiosità mi ha spinto a cercare maestri ovunque: Parigi, New York, Londra».
Per la tecnica?
«Non solo. Quando sei sul palcoscenico devi creare. Un dare-avere con il partner, un coinvolgere la compagnia. Senza individualismi. Tu sei viva su quel palco. Reagisci, interpreti lo stesso balletto ogni volta in un altro modo. Sa quante volte mi dicevano, «stasera è diversa». C’è una vita dietro la scena, dietro quei passi che sono sempre gli stessi».
Una secchiona?
«Esatto (ride, ndr). Che fai ti sei mangiata il manico della scopa?, aggiungeva Pistoni, primo ballerino della Scala, per la mia camminata. Ma nella vita bisogna essere forti. Non cedere a certe provocazioni, difendere la propria fragilità. La direttrice Bulnes diceva: Fate come Fracci. Lei sa benissimo quello che vuole e arriva sempre all’obiettivo.
Era vero?
«Sì. Ero come un treno. Anche se dietro la mia forza si celava sensibilità. Io sorridevo a tutte le battute, e andavo avanti».
Un suo rituale prima di ogni spettacolo?
«Arrivare in anticipo. Stavo in silenzio, mi chiudevo in me stessa, per trovare concentrazione e abbandonarmi totalmente alla musica, e poi facevo il segno della croce».
È credente?
«Sì. Ma era anche una mia consuetudine. Ricordo il messaggio per me di madre Teresa di Calcutta: «Riponga nella danza l’idea di Dio».
Oggi il balletto è una rarità?
«Sì, ed è molto triste».
Crisi del teatro?
«Non c’è più la danza. Questa è la verità. Io vorrei tanto creare una compagnia per i giovani talenti del ballo, in cui mettere a disposizione la mia esperienza. Ricordo la prima volta che ho portato in Italia Il Fiore di Pietra di Prokoviev all’Opera di Roma, dove sono stata dieci anni. Vorrei ricominciare a pensare, proporre e creare. Roma è sempre stata la città più desiderosa della danza, miniera di affettuosità».
E con la Scala?
«Da anni non collaboro più. Sono state fatte scelte su cui non mi pronuncio. Direttori e sovrintendenti che cambiano, ognuno con le proprie idee».
Ma lei rappresenta la Scala.
«La gente che mi incontra dice di essere stata tradita, visto che la mia storia è molto legata a quel teatro».
Si è sentita messa da parte?
«Di certo non c’è stata generosità. Lei prima mi ha definito icona. Ecco, a volte l’icona può dare fastidio. Ma non mi riferisco solo alla Scala».
Quanto è cambiato il teatro rispetto al passato?
Il cambiamento è generale. Sta a guardare il dettaglio, signora? Mi disse un ballerino mentre mostravo l’interpretazione del carattere del padre di Giulietta. Bisogna avere umiltà di imparare. Insistere sui caratteri dei personaggi. E poi, andare oltre l’individualismo. La compagnia è lo stare insieme dei ballerini. Non è disunione.
Non c’era competizione?
«Alata, sublime competizione. La definirei così. Come quella con la Natal’ja Makarova. C’era senso del lavoro, qualità e importanti referenti anziani, come Balanchine e Danilova che ci dominavano. Oggi forse manca l’eccitazione della competizione artistica. Le racconto un aneddoto divertente. Ero a New York. Al Metropolitan, c’era la Giselle con Nureyev e Fonteyn e allo State Theater la Giselle con me ed Erik Bruhn. Hanno dovuto spostare l’inizio dello spettacolo di mezz’ora affinché il pubblico potesse vederne la metà di entrambi. È stato meraviglioso».
A proposito di maestri, c’è anche Eduardo de Filippo. Cosa le ha insegnato?
«Mi ha insegnato a vedere nel teatro anche le sfumature dei colori. Mi propose il finale danzato di Filumena Marturano al Teatro Tenda di Roma, con le musiche di Nino Rota e il flauto d’oro di Severino Gazzelloni. Tra il pubblico, Magnani, Gasmann, Fellini, Pasolini. Da ieri sera ti chiamo sorella, mi scrisse il giorno dopo Eduardo».
Ma è vero che disse di no a Mastroianni?
«È vero, purtroppo. Voleva che recitassi ne Le Ultime Lune. Ma non potevo prendere l’impegno per due anni. E ho dovuto dire no, con dolore. Era una persona deliziosa».
E tornando indietro, cosa farebbe che non ha fatto?
«La copertina per il Time. Quella che proposero a me e a Bruhn, considerati The Ballet Hot Couple (la coppia bollente della danza), nel 1968. Lui non volle. Ci penso ancora oggi. Tra gli italiani fotografati, potevo esserci anche io, no?».
Lei, ballerina madre?
«Già. Le danzatrici erano come delle vestali. Era inusuale avere figli. Io sono riuscita a coniugare tutto».
E invece, come spiega la fisicità in un periodo in cui si parla di anoressia?
«Di non credere al film de Il Cigno Nero. La dieta non è drastica, va fatta con il tempo e con dialogo. L’anoressia non è così diffusa in questo mondo. Forse ci hanno speculato. E anche qui, sta nella bravura dei maestri consigliare».
Ai giovani che cosa consiglia?
«Di persistere. Di non mollare. Di rimboccarsi le maniche perché la danza è soprattutto questo: una scelta».