il Giornale, 7 gennaio 2018
Reazionari, ecco le ragioni di chi si ribella alla Rivoluzione
In piena età della Restaurazione, per iniziativa della Santa Alleanza creata all’indomani del Congresso di Vienna si riunì a Verona dal 9 al 14 ottobre 1822 un congresso, appunto il Congresso di Verona o Congresso dei Grandi, espressione della nuova diplomacy by conference, convocato per affrontare alcune questioni di politica internazionale e per autorizzare la Francia di Luigi XVIII a intervenire in Spagna contro il governo costituzionale. Il principe Clemens Lotario von Metternich, cancelliere dell’impero asburgico, volle che i lavori fossero allietati dalle musiche di Gioacchino Rossini. Del grande e gaudente compositore aveva ammirato soprattutto un’opera, Zelmira, che gli sembrava funzionale al clima politico perché raccontava la storia della restaurazione di un legittimo sovrano dopo una fratricida lotta fra tiranni.
Il libretto dell’opera rossiniana è stato inserito in un corposo volume curato da Stefano Verdino e intitolato La buona causa. Storie e voci della Restaurazione (Aragno, pagg. 732, euro 40) che costituisce la più completa rassegna antologica del pensiero legittimista e reazionario italiano dell’Ottocento nel periodo compreso fra la Rivoluzione francese e il crepuscolo del potere temporale nel 1870. L’inclusione di Rossini potrebbe apparire forzata, poiché egli non fu un pensatore politico nel senso proprio del termine e le sue simpatie furono dettate, più che da una scelta ideologica, dalle circostanze che lo videro diventare – lui amante del buon cibo e delle belle donne – il beniamino delle principali corti aristocratiche del tempo. Tuttavia questa inclusione ha una logica in quanto testimonia della diffusione, a tutti i livelli della società, di quei sentimenti di devozione per la «civiltà aristocratica» e per l’«armonia politica e sociale» sulla quale essa si fondava e che era stata messa in discussione dagli eventi rivoluzionari, prima, e dai moti liberali, poi. Non è un caso che il testo riprodotto nel volume, Zelmira, appartenga proprio a quella stagione politica conosciuta come Restaurazione: la stagione, cioè, di un rinnovato equilibrio fra gli Stati dopo gli sconvolgimenti dell’età rivoluzionaria e napoleonica.
All’indomani della Rivoluzione francese che aveva messo in discussione l’Ancien Régime e la sua stessa legittimazione fondata sulla «unione del trono e dell’altare», la riflessione politica e la letteratura, satirica o allegorica o anche polemica, di scrittori italiani, legittimisti e reazionari, appartenenti agli antichi Stati della penisola si concentrarono soprattutto sulla denuncia della natura «perversa» della Rivoluzione e sulla condanna di quelle dottrine politiche – il liberalismo e la democrazia in primis – che ne erano, a loro dire, inevitabili e nefaste conseguenze.
Così, per esempio, il savoiardo Joseph de Maistre, l’autore del celebre Le serate di Pietroburgo, che spese la vita al servizio dei Savoia e che divenne uno dei più intransigenti esponenti del pensiero controrivoluzionario e uno dei più autorevoli sostenitori della Restaurazione, presentò la Rivoluzione francese come un’opera «satanica» frutto dei lati negativi propri della natura umana. Così, ancora, il gesuita Lorenzo Ignazio Thjulen – un luterano convertito di origini svedesi, autore di numerosi lavori tra cui un allegorico e allusivo poemetto eroicomico sulla ribellione degli animali contro gli uomini – in un gustoso Nuovo vocabolario filosofico letterario (1799) definì la democrazia come «Demonocrazia o governo dei Demoni». Un altro celebre personaggio, il napoletano Antonio Capece Minutolo principe di Canosa, «cattolico romano per convincimento», autore di I piffari di montagna (1820), sostenne che «lo spirito rivoluzionario» non poteva essere «represso da poteri ordinari» perché l’unico capace di vincerlo sarebbe stato un «dispotismo vigoroso ed estremamente attivo». Ormai anziano e divenuto quasi icona riconosciuta del legittimismo, il principe disse di sé: «Non ho mai corbellato il popolo dandogli ad intendere che esso era il sovrano di diritto, che potea far tutto ciò che gli gradiva, che sarebbe stato ricco ed eguale a’ più gran signori dopo la rivoluzione con tutte quelle altre minchionature ed inganni che verso il popolo usano i falsi liberali».
Contro il dilagare del «pericolo rivoluzionario», durante tutto il periodo risorgimentale, le voci dei sostenitori dei diritti del trono e dell’altare, dei legittimisti e dei reazionari crebbero di intensità. Nelle Marche il conte Monaldo Leopardi, padre del poeta Giacomo, autore oltre che di una Autobiografia anche di arguti Dialoghetti (1832) e di altri sapidi scritti politici, rifiutando «le lusinghe della rivoluzione» fissò i capisaldi che avrebbero dovuto delimitare l’esercizio della libertà: «si può essere libero anzi deve esserlo chi non è vile, ma le basi e i confini della vera libertà sono la Fede di Gesù Cristo e la fedeltà al Sovrano legittimo. Fuori di questi limiti non si vive liberi, ma dissoluti». Nella Roma di Pio IX, il poeta Giuseppe Gioacchino Belli, spaventato e disgustato dal «fanatismo di bugiarda eguaglianza», scrisse versi corrosivi, sia in italiano sia in romanesco, «contro li ggiacobbini» e contro «er governo de li ggiacubbini» ma sempre in difesa de «lo Stato der Papa». In quello stesso periodo e sempre a Roma, il fratello di Massimo d’Azeglio, il gesuita Luigi Taparelli d’Azeglio, sulle pagine della rivista da lui diretta, La Civiltà Cattolica, disquisì di «libertà tirannia» e contestò l’idea romantica e risorgimentale della nazione e del principio di nazionalità. A Torino, l’intransigente conte Clemente Solaro della Margarita, grande uomo politico e fine diplomatico al servizio del Re di Sardegna, espose nel Memorandum storico-politico (1851) le ragioni della sua opposizione alle riforme costituzionali del Piemonte e, soprattutto, alla politica estera dello Stato sabaudo finalizzata al raggiungimento dell’unità: non a caso Solaro della Margarita, espressione tipica del «vecchio Piemonte» (proprio Addio, vecchio Piemonte! è intitolato un romanzo biografico dedicatogli da Salvator Gotta) e strenuo oppositore di Cavour, all’indomani della proclamazione del Regno d’Italia, divenuto bestia nera dei liberali, decise di ritirarsi dalla vita pubblica.
Si potrebbe proseguire a lungo ricordando, per esempio, la rilettura in chiave reazionaria della storia d’Italia fatta da San Giovanni Bosco che raccomandava ai suoi salesiani di «essere cittadini di fronte allo Stato; religiosi di fronte alla Chiesa». Ma è bene rinviare al volume, che presenta una selezione di testi di una trentina di scrittori, politici, sacerdoti. Ne emerge, per la prima volta, uno spaccato quanto mai articolato e interessante di quello che potrebbe essere chiamato il «vario legittimismo italiano». Il quale, peraltro, pur ricco di spessore speculativo, è rimasto ai margini della storia come testimonianza suggestiva o come rimpianto nostalgico di un passato ormai lontano e non riproponibile. A differenza, invece, di quanto accadde in Francia, dove le posizioni legittimiste e reazionarie finirono, con il tempo, per incontrare il conservatorismo persino nella sua versione più liberale. Ma lì, in Francia, c’era qualcosa da conservare, un patrimonio comune, uno Stato nazionale preesistente alla Rivoluzione.