la Repubblica, 8 gennaio 2018
Nel villaggio che non c’è dove le Coree cercheranno la pace
WASHINGTON In un villaggio che non c’è, popolato da gente che non c’è chiamato Panmunjeom, due nazioni cercheranno domani di costruire il frammento di una pace che non c’è. Sud e Nord Corea in guerra dal 1950, appese a un “cessate-il-fuoco” che non è mai diventato trattato di pace e ora potrebbe diventare la Sarajevo di una Terza Guerra Mondiale nucleare, dovrebbero cominciare il dialogo per permettere agli atleti di Kim Jong-un di partecipare alle Olimpiadi invernali fissate fra un mese in Corea del Sud. Si incontreranno domani, se manterranno la parola, all’ombra del piccolo, ma micidiale bottone nucleare di Kim e del bottone di Trump, che ce l’ha “più grosso”.
Nel freddo di un interminabile inverno di guerra tenuta in animazione sospesa da due generazioni, che in questi giorni di gennaio diventa freddo meteorologico dove zero gradi Celsius sono considerati un’ondata di calore, il piccolo mondo surreale costruito attorno al 38esimo parallelo che divide la penisola Coreana riprenderà vita per qualche ora.
Panmunjeom, che nel 1950 era un paesetto di pochi contadini cento chilometri a nord della capitale Seul, fu prima consumato dalla guerra e poi svuotato dalla non-pace che lo ha collocato, senza sua colpa, nella zona smilitarizzata fra il Nord e il Sud dove i combattimenti cessarono nel 1953. Ha conservato il nome, ma non la vita. Panmunjeom non c’è più.
Al suo posto, è stato eretto un monumento all’instancabile fantasia autodistruttiva degli uomini e delle loro ideologie, una Maginot d’Oriente ma ancora pronta a esplodere, un “Berlin Wall” ancora eretto. È stata chiamata la «frontiera più tesa del mondo». Quando ci si avvicina e si visitano le aree pubbliche, chi viene dal Sud deve firmare una liberatoria per riconoscere che rischia la vita e rinunciare a ogni pretesa o risarcimento, nel caso un soldato nordcoreano troppo nervoso, o un cecchino fra le centinaia appostati sulle torri e fra gli alberi, scambi uno studente in vista turistica per un infiltrato degli imperialisti. I più rari viaggiatori provenienti dal Nord, dal paradiso dei lavoratori nordcoreani, non devono firmare niente, perché lì nessun essere umano si sognerebbe di portare Kim Jong-un in uno dei suoi tribunali, davanti ai suoi plotoni di esecuzione.
Panmunjeom è un gift shop, per chi lo raggiunge da Seul in poco più di un’ora di strada in auto, tempo che dà la misura di quanto siano esposti e vulnerabili alle mattane del giovane Kim i dieci milioni di abitanti della capitale, che sono di fatto ostaggi del despota. Ma oltre gli stand dei venditori di souvenir, dove a Nord si possono comperare liquori al ginseng, afrodisiaci al veleno di serpente e anche frammenti, forse autentici, del filo spinato che fino al 1950 divideva il Nord dal Sud, si alza la Hall Centrale chiamata della Libertà, dalla parte del “buoni”, e, sull’altro versante la Panmon=Hall, edificata dai “cattivi”, o viceversa secondo la propaganda. Fu aumentata da un sopralzo nel 1988 per essere più alta di quella sudcoreana.
Tra di loro, le sette baracche dipinte di azzurro, il colore delle Nazioni Unite, teoricamente garanti dell’armistizio.
In lontananza, dalle colline alla spalle, dove i 35 mila soldati americani del corpo di spedizione e i loro alleati coreani rabbrividiscono nel vento siberiano che scende dal Nord con la stessa inarrestabile violenza delle divisioni cinesi che Mao scatenò contro gli americani, si ammira il villggio perfetto di Kijiong Dong, costruito dai comunisti come un set hollywoodiano, o un “Villaggio Potëmkin” zarista, ma sempre rimasto disabitato.
L’unico movimento è quello della bandiera della Corea del Nord che garrisce appesa al pennone più alto del mondo, alto 200 metri. «Non fate cenni di saluto ai nordcoreani» avvertono le guide. Pare che non la prendano bene e possa partire un colpo.
A Panmunjeom fa sempre freddo, anche nelle estati più calde, chiusa nel gelo della paura reciproca e della pace che non c’è. Nei sette piccoli edifici collocati esattamente, millimetricamente sul 38esimo parallelo, tutto è rigorosamente separato dalla linea di demarcazione firmata nel 1953. I tavoli per gli incontri dove domani dovrebbero parlarsi le delegazioni, nelle baracche azzurre, sono separati dai fili dei microfoni che li tagliano esattamente in due, coreani del Nord da una parte, sudisti dall’altra. Solo ai visitatori, quando non ci sono incontri, e sotto lo sguardo cupo dei militari di Kim e dei soldati di Seul, sempre con i Ray-Ban Aviator, è permesso di girare attorno al tavolo una volta e provare il brivido di sconfinare.
Quel brivido che è costato la vita a dozzine di soldati che hanno tentato di attraversare la fascia neutrale e che hanno prodotto, come nel 1997, scontri a fuoco e la morte di un soldato americano mandato ad abbattere un albero che ostacolava la visuale. Non ci sono uomini in abiti civili, non donne che non siano in uniforme. E nessun bambino, la prova finale che nel villaggio surreale non c’è vita.
In questa irrealtà morta da 65 anni, dopo due anni di silenzio, si incontreranno nord e sud per discutere, ironicamente, di sport sul ghiaccio. Sperando che regga, prima che qualcuno lo sciolga premendo su quei bottoni.