la Repubblica, 7 gennaio 2018
Paolo Isotta: «Basta critica musicale, ora mi dedico a Totò e Ovidio»
Il diavolo veste Isotta, verrebbe da dire, dopo aver incontrato il più sulfureo e talentuoso tra i critici musicali italiani. Il “diavolo” vive in un dettaglio di Napoli, un edificio di foggia razionalista con vista sul Golfo. “Paolino”, così lo chiamano gli amici, mi riceve affiancato dal suo cane Ochs (il nome è un omaggio al barone protagonista del Rosenkavalier di Strauss): un bassotto esuberante. Più che a un maschio alfa Ochs somiglia a un maschio alfetta: “A chisto cessu piace vino e champagne”, dice ridendo Isotta che di animali se ne intende. Ha da poco pubblicato un libro strepitoso (Il canto degli animali, edito da Marsilio) bello per armonia, pathos, erudizione e conoscenze del mondo classico.
Ama più gli animali degli uomini?
“Sono più attendibili e anche più esposti alla violenza gratuita dell’uomo. Provano sentimenti e li esprimono con il loro linguaggio che, in origine, è comune all’uomo. Lucrezio comprese perfettamente questa loro natura. Cartesio l’ha condannata riducendo l’animale a una macchina non senziente. Fu il primo errore ripugnante della modernità”.
Sempre in ambito bestiario si è paragonato a un elefante.
“Animale fantastico, per noi napoletani tra l’altro è considerato potentissimo apportatore di buon augurio”.
Ne avverte il bisogno?
“Il mondo è pieno di jettatori”.
Comincia l’anno con questo tono?
“Mi difendo da forze che la scienza non è in grado di spiegare.
Bisogna cominciare l’anno con determinazione”.
E come lo ha chiuso?
“In teoria sarei un “piromane”, ma non ho sparato, quel bassotto lì ha otto mesi e si spaventa dei botti”.
Lei è nato a Napoli?
“Come è vero che ora le parlo. Ma le origini della mia famiglia sono in parte piemontesi. Gli Isotta provengono da un paese sopra Omegna chiamato Agrano. Sul lago d’Orta. Ma scelsero di migrare al Sud nella convinzione che Napoli fosse il più bel posto del mondo. Mai decisione fu più azzeccata”.
Che famiglia era?
“Benestante. A Napoli comprarono un palazzo a via Medina, affittarono ville godendo di tutti i privilegi della ricchezza. C’erano proprietari terrieri e professionisti. Personaggi stravaganti, minorati mentali (a volte accadeva di avere dei cugini o delle zie mentalmente incerte, persone verso le quali più forte era l’affetto), o autorevoli, come lo zio Mario che era stato in Congo Belga a studiare le malattie tropicali. Visitò Proust a Parigi e curò Stravinskij a Napoli, guarendolo da una grave polmonite. Mio padre era avvocato civilista. Piaceva a tutti quella vita scandita da vacanze a Capri, di racconti avventurosi e di viaggi fantastici”.
In questo ambiente lei che faceva?
“Avevo con Napoli lo stesso rapporto incantato che ricreavo con la lettura delle favole. La città mi pareva fiaba. I venditori ambulanti che la mattina passavano sotto le finestre con le loro voci più cantate che strillate; la devozione del popolo; le donne dei vicoli; le vendemmie ad Anacapri, le passeggiate a dorso di ciuccio e mia nonna che mi insegnò il francese e il tedesco e mi diede i primi rudimenti musicali. Fu un mondo unico fatto di solerzia e ironia, di provocazione e fatalismo, di bellezza e stravaganza. C’era di tutto in quel mondo: indimenticabili ricchioni, come il cavalier Spizzico capoclaque del San Carlo, vecchie puttane che rattristavano i miei pensieri, abili commercianti e mitici posteggiatori, incalliti frequentatori della riffa e devoti, come me, di San Gennaro. Sono uno degli ultimi testimoni di una Napoli che non c’è più”.
In questa rievocazione di una Napoli sparita accennava a sua nonna che le ha trasmesso le prime nozioni di musica.
“Nonna Laura mi cantava meravigliose canzoni francesi e tedesche trasmettendomene il valore e il significato. Ma non vengo da una famiglia di musicisti. Studiai di nascosto un po’ di musica e solo dopo confessai a mio padre di questa passione e del fatto che nella vita avrei voluto diventare direttore d’orchestra. Lui mi stette ad ascoltare e poi disse che avrebbe voluto che proseguissi nella sua professione. Gli risposi che non era quella la mia strada. Dammi retta aggiunse: un mediocre musicista sarà un fallito per tutta la vita, un mediocre avvocato troverà sempre di che campare dignitosamente”.
E lei che fece?
“Pensai che mi disprezzasse e che non credeva minimamente nelle mie attitudini. Cominciai a prendere lezioni da Vincenzo Vitale che fu maestro mio e di Riccardo Muti. Ero determinato a proseguire, solo che non avevo capito che mi mancava il talento. Il maestro mi incoraggiava a insistere sottovalutando i miei limiti”.
Da cosa se ne accorse?
“Dal fatto che un direttore deve possedere un’autorità innata. Muti, ad esempio, l’aveva. E poi la qualità del gesto, la lettura del tempo e infine l’orecchio. No, purtroppo, la natura non mi ha dotato dell’orecchio assoluto. Sarei stato un mediocre direttore d’orchestra e improvvisamente mi tornarono alla mente le frasi di mio padre”.
Fu quel monito ad aiutarla a rinunciare?
“No, fu San Gennaro a illuminarmi e a farmi capire un momento prima che fallissi che avrei dovuto lasciar perdere. In fondo, mi dissi, potevo scegliere di occuparmi di musica in tutt’altro modo”.
Che cos’è per lei San Gennaro?
“Quello che rappresenta per tutti i napoletani: più che una fonte miracolistica un’assicurazione sulla vita. Non credo in Dio ma mi affido volentieri ai santi. Sono convinto che il cristianesimo abbia distrutto la potenza e la ricchezza della cultura classica. Il merito della Chiesa cattolica è stato di rovesciare questo cristianesimo delle origini e di aver introiettato nel proprio corpo aspetti fondamentali del paganesimo, di cui i santi sono una delle espressioni più belle e riuscite”.
Lei è uno strano tipo.
“Cioè?”.
Diciamo fornito di una stravaganza raffinata e pittoresca.
“Non voglio essere pittoresco, ed è la ragione per cui ho smesso di fare il critico musicale. E la mia stravaganza è nel non aver mai coltivato il potere, né chiesto niente a nessuno. Se uno va all’etimologia della parola sa che essere stravaganti significa uscire dai sentirei battuti. Non è un caso che io abbia sempre adorato la cultura classica, soprattutto il latino”.
Sindrome da vecchio professore?
“Ma no; senza il latino, mi dia retta, non si va da nessuna parte. È il sistema linguistico sovrano per avere un giusto rapporto con la vita”.
Un altro omaggio alla controriforma.
“Non me ne vergogno. Ci hanno insegnato che la controriforma è stata in Italia una delle peggiori catastrofi perché ha lasciato che trionfasse l’oscurantismo. Beh non la penso così. Nonostante le raffinate analisi di Max Weber sull’etica protestante e lo spirito del capitalismo, giudico il protestantesimo una religione angusta e tormentatrice. Mentre la controriforma è stata una delle epoche più dedite al culto del Bello e alla glorificazione della natura. Tra Lutero e Bernini non avrei dubbi da che parte stare”.
E Bach?
“Bach è un caso quasi unico. Sebbene provenisse dall’ambiente del pietismo luterano, le sue Cantate e Passioni sono intrise di una tale teatralità e di una forza figurale estranee allo spirito della Riforma. Più vicino a Bernini che non a Lutero”.
Perché ha smesso di fare il critico musicale?
“Glielo ripeto: per non essere confuso con il pittoresco e poi se mi guardo intorno noto che la vita musicale è scaduta a livelli impensabili qualche anno fa. Mi sono detto: che me ne fotte di stare all’opposizione. L’ho fatto per quarantuno anni, dando molto di più di quello che mi si chiedeva. La nausea era diventata più forte del disprezzo per l’ambiente. Un paio di anni fa mi sono fermato. Basta, cambio vita. Oggi viaggio molto meno. Ho tagliato l’ottanta per cento delle mie frequentazioni. Vedo chi mi piace, scrivo libri e leggo molto di più”.
Che genere di lettore ritiene di essere?
“Totale, del resto non farei distinzione tra ascolto, lettura e visione. Amo il cinema come la letteratura. Per quest’ultima sono in debito con mia madre che è stata una grande lettrice di romanzi”.
Quali quelli che l’hanno formata?
“Ovviamente i classici e poi da Manzoni a Flaubert non c’è pista narrativa ottocentesca che non abbia percorso. I più grandi del Novecento sono stati Céline e Gadda. Il più sopravvalutato, da noi, Calvino. Ho amato lo stile di Croce e quello di Sciascia che ho cercato in qualche modo di imitare”.
Cosa le manca dei suoi genitori?
“Di mio padre l’intelligenza, di mia madre l’intelligenza e la capacità di comprendere e amare”.
Si è sentito poco amato da suo padre?
“Nonostante i suoi lati buoni non credo che sia stato un padre affettuoso. Dall’ingresso nell’adolescenza fino alla maturità mi ha sempre ispirato un certo terrore”.
Provocato da cosa?
“Quelli della sua generazione pensavano che la severità fosse un dovere educativo. Vede, io non è che brillassi a scuola. Me ne disinteressavo fino all’ultimo mese, quando recuperavo tutto il programma non fatto. Ma intanto arrivavano le pagelle, spesso pessime e mio padre mi guardava con disprezzo. La sua presenza mi ha reso la vita infelice. Però era anche un gioco delle parti. Tra un padre e un figlio”.
Le dispiace non avere avuto figli?
“Non lo so, non c’ho mai pensato. Ho una specie di figlio adottivo che adoro, un nipote. Il solo difetto che è troppo serio”.
Lo vorrebbe come?
“Se dovessi pensare a un figlio mio lo avrei incoraggiato a essere giocatore e puttaniere. Non sarei mai stato capace di essere severo. Avrei goduto della sua dissipazione”.
Contro l’educazione repressiva?
“Contro ogni forma di repressione”.
Come interpreta la parola “eros”?
“Della parola me ne frego, l’eros deve essere piacere, anche solo fisico. Vengo da un’educazione in cui la strada ha contato molto”.
Le piace la canzone napoletana?
“Adorabile, anzi “adorabile” non è l’espressione giusta. Intensa, profonda, effusa. Ho amato i cesellatori della mezza voce come Gennaro Pasquariello, il cui erede ai giorni nostri fu Robertino Murolo, quasi un parente per la nostra famiglia. Ho amato la sceneggiata e il varietà. Mio padre soffriva di insonnia. Erano gli anni in cui dilagavano le televisioni commerciali e private. E lui si metteva in poltrona davanti al piccolo schermo e passava le nottate a guardare certe commedie e sceneggiate napoletane. Ho appreso in quel contesto cose talmente mirabili da immaginarle come pura avanguardia culturale”.
Gode a essere una specie di bastian contrario?
“Non è che ci soffra. Lo riconosco. Sono stato la bestia nera dei salotti culturali e musicali di sinistra, soprattutto quelli milanesi”.
E oggi?
“C’è ben poco con cui valga la pena polemizzare”.
Su che cosa sta lavorando?
“Ho finito di scrivere un breve saggio su Totò e uno molto lungo su Ovidio”.
Totò e Ovidio sembra il titolo di una commedia.
“Non c’avevo pensato. In fondo pochi come Totò conoscono l’arte della metamorfosi”.
Lo ha conosciuto?
“No, ma andai al suo funerale. Seppi della sua morte quando per i vicoli di Napoli le donne disperate gridavano “È muorto Totò”. Avevo sedici anni. Con un amico ci recammo nella piazza gremita di gente. C’era una ressa soffocante. Poi il feretro uscì dalla chiesa. Ci fu la commemorazione toccante di Nino Taranto. Sulla bara era stata posta l’immancabile bombetta. Tutti volevano sfiorarla, toccarla, abbracciarla. Fu la prima adunata di massa spontanea attorno a una morte che divenne rappresentazione teatrale”.
Come vive il rapporto con la morte?
“Sono nato sotto un vulcano. E so che tutto è provvisorio ma al tempo stesso sento che la terra mi dà energia. Non ne ho paura. Semmai temo le circostanze del morire: la sofferenza innanzi tutto. Ben venga la legge sul biotestamento. La considero un fatto di civiltà. Anche se purtroppo ci sarà ancora a lungo una torbida alleanza tra quei medici che vogliono accanirsi e i preti che intendono gestire la vita e la morte delle persone. Quanto a me, mi auguro di campare ancora a lungo. C’è un detto napoletano: “ogni juorno è truvato in terra”, ossia è regalato. Vorrei che il tempo che mi resta fosse dedicato alle cose meno effimere. È il mio proposito per l’anno nuovo”.
Cosa si aspetta o cosa vorrebbe che accadesse nel 2018?
“Dall’anno nuovo vorrei: in politica: la sconfitta dei demagoghi, dei venditori di fumo e degli impostori (possibile forse, ma solo per breve tempo); nella cultura, e quindi anche nella musica: la sconfitta dei demagoghi, dei venditori di fumo e degli impostori, impossibile per definizione”.