Corriere della Sera, 7 gennaio 2018
Nella Casa dei lunghi coltelli tutti si odiano e odiano il capo. Come dentro un romanzo
La cosa più sconfortante che viene in mente appena terminata la lettura di Fire and Fury di Michael Wolff è che c’è da sperare – per il bene dei nostri figli, dell’America, del pianeta – che l’autore del libro sui primi mesi di Donald Trump alla Casa Bianca sia un bugiardo come dicono i repubblicani, un romanziere che fa passare per vere le sue invenzioni.
La cosa più confortante, invece, è che una delle «anticipazioni» che erano filtrate via Internet – lo staff della Casa Bianca che crea un finto canale tv di combattimenti tra gorilla per intrattenere il presidente che passa ore a fare il tifo ad alta voce per uno dei duellanti – è falsa, era una spassosa invenzione d’un buontempone (brutto però che non fosse parsa ai più subito una balla: ormai ci aspettiamo qualunque cosa).
Il quadro dipinto da Wolff è quello di uno staff della Casa Bianca profondamente convinto dell’incapacità politica, strategica e temperamentale dell’attuale inquilino. Un presidente che da candidato, nel 2016, pensava che avrebbe vinto anche perdendo le elezioni, facendo esplodere il suo personale brand nel mondo, e diventando di fatto capo dell’opposizione a Hillary Clinton senza ingombranti ruoli parlamentari ma con un semplice account Twitter. Trump che, come tutta la famiglia, non pensava di vincere (Lara, moglie del figlio Eric, ammette che «prima della nomination non pensavamo che sarebbe andato da nessuna parte»). L’unica voce che prevedeva vittoria finale era quella di Melania: dal libro di Wolff la più intelligente di tutti sembra nettamente lei, con buona pace di chi pensa male delle modelle (e sarebbe fantastico se la fonte primaria di Wolff, tenuta segreta, fosse lei). Melania che però piange, di dolore, nella notte elettorale perché vuole restare a New York a vivere la vita che si è costruita, moglie di un miliardario e madre del suo figlio più piccolo, residente della Trump Tower, felice di discreti lunch con le amiche in qualche ristorante di lusso. Melania che non dorme con il marito alla Casa Bianca (l’ultimo presidente con camere separate era stato JFK) e che nessuno vede mai, tanto che Ivanka è considerata la vera First lady e Hope Hicks, fidatissima addetta alla comunicazione, la vera figlia. Il genero, il sempre impeccabile Jared Kushner? Ammiratissimo da Trump che gli ha affidato un incredibile ruolo diplomatico-strategico, viene irriso dallo staff come «l’uomo meglio vestito di Washington». Epico un dialogo tra Kushner e il consigliere populista Steve Bannon che lo disprezza profondamente: «Non lo so». «Sappilo».
Qualche spigolatura? Trump che definisce il generale McMaster, attuale consigliere per la sicurezza nazionale, «il rappresentante d’una birreria», McMaster tacciato dal miliardario finanziatore repubblicano Sheldon Adelson di essere anti israeliano (spassoso leggere che Adelson avrebbe detto a Trump che l’unica persona di fiducia su Israele fosse Bannon, paladino della destra estrema ad altissima densità di antisemiti).
E ancora: Trump che, prima di essere eletto, abitualmente chiama le mogli degli amici, le mette in viva voce, e poi fa entrare il marito al quale suggerisce di «far arrivare delle ragazze da Los Angeles» (nella speranza che il malcapitato dica qualcosa di compromettente per poi convincere la moglie ad avere una relazione con lui). Trump, ormai presidente, sull’Air Force One che ripete di essere «circondato da idioti», ripagato della stessa moneta dai presunti idioti appena il presidente non può sentirli. Era stato già anticipato il giudizio lapidario dell’ex consigliere Steve Bannon sul suo boss e sulle scelte fatte durante la campagna elettorale, prossime al tradimento secondo lui, di parlare con i russi delle mail di Hillary Clinton (peraltro Trump a un comizio aveva espressamente chiesto ai russi di hackerare quelle mail, una delle tante confessioni rese – come quella sulle molestie – delle quali però nessuno gli ha presentato il conto, politico o giudiziario). Bannon dice anche che Trump finirà nei guai per riciclaggio.
Si sapeva già che il segretario di Stato Rex Tillerson avrebbe definito il presidente «un maledetto coglione» ma certo dal libro di Wolff traspare l’atmosfera di totale sbando in una Casa Bianca squassata da lotte intestine. E perfino i sostenitori di Trump come l’inventore di Fox News Roger Ailes, morto a maggio dopo essere stato cacciato per molestie, dicono cose come «gli uomini che chiedono più lealtà si rivelano essere le teste di cazzo meno leali di tutti» (tutti sanno che per Trump la cosa più importante è la lealtà dei collaboratori: uno dei motivi per i quali si sarebbe circondato di generali è che sa che come comandante in capo delle forze armate esercita su di loro un’autorità ben precisa, codificata, che va oltre la semplice lealtà politica e/o personale). Sul licenziamento del direttore dell’Fbi, James Comey, che indagava su di lui, Wolff scrive un’altra cosa devastante – che «il contrasto tra Trump e Comey è quello tra Trump e il buon governo». Con i fedelissimi di Trump incapaci, a porte chiuse, dopo avergli dato ragione davanti alle telecamere, di difendere la sua scelta. Quest’ultimo è il dato costante di una presidenza che, se fosse vera anche soltanto la metà di quello che scrive Wolff, va ben oltre la strategia di Lincoln del «team di rivali», ministri e consiglieri in contrasto, manovrati dal presidente per i suoi fini politici e strategici. No, quella di Trump, descritta da Wolff, è una non-strategia: tutti si odiano tra loro e odiano il loro capo, che in cambio li disprezza (e li insulta: il viceministro della Giustizia cacciato per renitenza a mettere in atto il piano di immigrazione anti musulmani, Sally Yates, sarebbe stata definita da Trump «una troia»).