La Gazzetta dello Sport, 8 gennaio 2018
Var, cosa ha funzionato e cosa no finora
Forse da lassù Albert Einstein si sta mangiando le mani: quale migliore esempio del calcio per spiegare la teoria della relatività. E in particolare delle scelte arbitrali, eventi simili puniti (o non) in maniera differente. Le prospettive diverse e le infinite variabili rendono spesso incomprensibile l’universo dei fischietti. E probabilmente non basterebbe al premio Nobel la tesi «tutti hanno ragione, dipende da quale angolo si vede un fatto». Il calcio pretende certezze, specie ai tempi della Var. Era stata accolta come la salvatrice della patria. Ovviamente non poteva essere così: in primis perché la tecnologia è usata da uomini (per natura non infallibili) e poi perché una svolta così epocale ha bisogno di tempi tecnici, pazienza e miglioramenti di un protocollo scritto e pensato a tavolino. Aspettando Godot e col campionato fermo, è meglio ricordare e spiegare ancora una volta i confini della Var, secondo i dettami dell’Ifab, che regolamentano la sperimentazione, compresa quella italiana affidata al duo Rizzoli (designatore Can) e Rosetti (responsabile del progetto per Lega e Figc). E quindi: fin dove gli arbitri si possono spingere, quando magari si può andare un po’ oltre senza far scattare l’allarme, usando magari il tatto necessario (chiamatelo buon senso) specie in presenza di episodi spinosi. L’altra faccia della medaglia è rappresentata dai casi in cui la Var non può e non deve intervenire. Lo facciamo aiutandoci con gli ultimi episodi più discussi. Tocchi di mano, fuorigioco, chiaro errore, rigore e tutto il resto.
MURO IFAB Il paletto più complicato da superare nel protocollo Ifab è il concetto di «chiaro errore». Evidente l’intento dei legislatori: evitare che ogni dubbio sia risolto dalla tecnologia. Il calcio è sport fluido, le continue interruzioni lo snaturerebbero. Ecco perché ci si è concentrati su quegli episodi (rigore, gol, fuorigioco, espulsioni e scambio di persona) che incidono in una partita, alterandone il risultato. È una questione di equità, ma anche economica: in un calcio miliardario, perdere una finale a causa di un gol irregolare è inaccettabile. Specie se l’errore può essere facilmente evitato con un replay. Quindi il «chiaro errore» è la bussola della sperimentazione. Nel pezzo a fianco facciamo delle proposte per migliorare rendere più flessibile questo punto, ma al momento è necessario spiegare agli addetti ai lavori cosa accade e come si muovono gli arbitri quando sono davanti a un caso sospetto. Se il direttore di gara vede e valuta un episodio soggettivo (dove c’è una interpretazione: quindi tutti i contatti e anche i falli di mano), la Var è in fuorigioco. Non può intervenire e tantomeno costringere l’arbitro in campo ad andare a rivedere il replay. Due esempi: il mani di Mertens in Crotone-Napoli e quello di Bernardeschi in Cagliari-Juve (e anche quello di Iago Falque, non punito da Giacomelli in Lazio-Torino). In entrambi gli episodi il Var ha chiesto al collega in campo (Mariani e Calvarese) se si fosse accorto del tocco e se lo riteneva punibile. La risposta è stata tranchant: visto e giudicato involontario. Fine della discussione, perché essendo un giudizio soggettivo non può configurarsi come chiaro errore. Il Var potrebbe insistere solo se il concetto di involontarietà non stesse in piedi (una parata, un colpo da pallavolista). Stessa cosa vale per tutte le altre situazioni interpretabili, a iniziare dai contatti in area. L’unica possibilità di review c’è se l’arbitro non si è accorto di un contatto. Allora il Var ha margine per spingere il collega al monitor. L’esempio di Torino-Bologna ci aiuta: Damato mostra il giallo a Verdi per simulazione e questo apre alla tecnologia perché è stato perso il pestone (di per sé interpetrabile) e quindi manca all’arbitro un pezzo dell’azione.
CONFINE ALLARGATO L’introduzione della Var ha stravolto il modo di arbitrare e quindi è comprensibile la resistenza inconscia dei fischietti, specie quando hanno la presunzione di aver visto giusto. Ma perseverare su questa strada è un autogol. La soluzione esiste anche con l’attuale protocollo: Mariani, Calvarese e Giacomelli avrebbero potuto fare un passo di lato, aprendo alla possibilità di rivedere il mani semplicemente perché la visione in diretta di un episodio così complicato come un mani in area può essere sempre disturbata da qualcosa. Questo non sminuisce la loro autorità: l’ultima parola spetta sempre all’arbitro in campo e quindi una volta rivisto l’episodio possono benissimo confermare la scelta di non punibilità.
USO SBAGLIATO A proposito, questo delicato passaggio ci porta a Doveri. Il fischietto romano in Juve-Torino di Coppa Italia ha scelto di andare a rivedere il contatto tra Khedira e Acquah dopo averlo giudicato regolare: un uso improprio della tecnologia. Doveri aveva il pieno controllo dell’azione, compreso il tocco sulla palla dello juventino. Mai e poi mai si poteva configurare il «chiaro errore». Anche perché aveva fatto capire a tutti il suo pensiero. Ma poi all’improvviso ha aperto alla tecnologia, andando contro il protocollo e alimentando la confusione. Si è usata la Var per un contatto soggettivo con l’arbitro che è arrivato al video in cerca del frame che mostrasse il tocco sulla palla di Khedira. Quello che aveva visto con certezza in diretta e confermato via auricolare. È stato questo l’errore da matita blu di Doveri nel derby e non certo aver giudicato regolare l’entrata di Khedira. Quella era una semplice valutazione: sbagliata, ma può capitare. A far rumore, invece, è stata la corsa al monitor. E forse questa pasticcio (e la conseguente sgridata dei vertici) ha consigliato a Calvarese e Banti di restare ancorati al protocollo. Il trionfo della relatività.