Corriere della Sera, 6 gennaio 2018
La rivincita di Spelacchio
«Spelacchio sei bellissimo, non è vero quello che ti dicono, Vincenzo e Pippi». Oppure: «Caro Spelacchio, ti voglio un sacco di bene, Lavinia» (pennarello blu, grafia da quinta elementare, annesso cuoricino). O anche: «Caro Spelacchio, non demordere, Laura e Gianluca». Anonimo arguto, che offre la chiave di tutto: «Caro Spelacchio, col tuo aspetto un po’ dimesso sei proprio uno di noi».
Roma ha un nuovo Divo. Contro ogni previsione, Spelacchio (l’abete rosso alto 20 metri, giunto dalla Val Di Fiemme già in precarie condizioni, costato circa 50 mila euro all’amministrazione capitolina per presidiare piazza Venezia, morto prima di Natale) ha stravinto la sua battaglia mediatica. Collocato tra sberleffi e insulti, sta dando l’addio alla Capitale accompagnato da un impensabile amore di massa, forse nel nome della celebre Estetica del brutto di Karl Rosenkranz a metà ‘800, contrapposta al «facile» Bello hegeliano. Ai suoi piedi decine di biglietti testimoniano solidarietà, incoraggiamento, addirittura affetto. Intorno, una ressa quotidiana di romani e di turisti impegnati in migliaia di selfie: fidanzati, famiglie, amici accanto ai rami spogli e radi dell’albero di Natale più mesto e depresso del Pianeta.
Per questa sua indicibile tristezza, Spelacchio è diventato un’antistar, tra Manhattan e il cuore dell’Africa. Il successore, nel Natale 2017, di Povero Tristo (il primo abete natalizio 2016 della giunta M5S di Virginia Raggi, penosamente misero e asimmetrico) si è guadagnato spazi sul New York Times, sul Guardian, sul Süddeutsche Zeitung e anche sull’agenzia Gna del Ghana. L’elegantissimo abete milanese di piazza Duomo (30 metri, 100 mila luci led e 700 palline natalizie) non è costato un euro a Palazzo Marino, è stato un dono di Sky alla città. Ma non ha avuto tanti onori. Splendido, chic e gratuito (e proprio per questo lontano dalla ribalta) ha illuminato silenziosamente Milano. Il realismo meneghino, finite le feste, lo trasformerà in arredi urbani, panchine o sculture.
Invece, a forza di vituperi, Spelacchio è diventato un caso internazionale. Se a Milano tutto è pianificato (perenne contrappasso tra le due capitali), il futuro dell’abete è incerto. Installazione permanente in una sede da definire (si sussurra addirittura del Maxxi)? O riduzione in piccoli souvenir (portachiavi, magari)? La Val di Fiemme vorrebbe riaverlo per trasformarlo in una Baby Little Home, una casetta per accogliere mamme impegnate nella cura dai bambini, da regalare a Roma.
Comunque vada, da domani 7 gennaio Spelacchio avrà esaurito il suo compito e diventerà «altro». Ma la sua parabola resterà nella microstoria del costume romano. L’ennesima conferma della capacità di Roma di trasformare in vittorie persino le disfatte. Stefano Malatesta, nel suo bel libro Quando Roma era un paradiso, racconta che poche settimane dopo l’ingresso delle truppe americane nel giugno 1944 a Roma si respirava un’aria «se non di opulenza, di un apparente benessere diffuso», con tanto di diamanti esposti nelle vetrine di via Condotti. Eppure era la capitale di un Regno sconfitto e devastato.
Roma è così, lo sa chi ci è nato o ci vive. Un inimitabile misto di ironia, fatalismo e distacco, con retrogusto di amarezza, vince sempre su tutto. Ma la verità, forse, sta in quel bigliettino: «Spelacchio, sei proprio uno di noi». Ha simboleggiato la crisi in cui si dibatte Roma, tra masse di rifiuti per strada e trasporti pubblici inesistenti, topi che scorrazzano e degrado diffuso. Applausi a un involontario, però grande, protagonista.