La Stampa, 8 gennaio 2018
Intervista a Nick Bollettieri: «La mia vita con i numeri uno. Rimpiango soltanto Federer»
«Sapete qual è la condanna di essere un numero uno?», dice piantandoti addosso gli occhi da antico sciamano mezzo paisà abituato a sussurrare ai campioni e a stregare il pubblico di tutto il mondo, dalla Florida al Golfo Arabo. «È che lo devi essere tutti i giorni. Per questo il migliore sono sempre io...». Nick Bollettieri, il coach che ha scoperto Andre Agassi e Monica Seles, Jim Courier e Maria Sharapova, ha 86 anni e riparte dal Qatar. La settimana scorsa era a Doha per il torneo Atp e ha tenuto il suo primo stage per i maestri di tennis locali.
Bollettieri, l’obiettivo è scovare un numero 1 del mondo arabo?
«Mai partire con l’idea di creare campioni. Se riesci a ottenere il meglio dai tuoi giocatori, i risultati arriveranno. Con il tempo possiamo produrre molti top-player».
Ma cosa ci fa un italo-americano a Doha?
«Sono venuto la prima volta vent’anni fa. In campo vidi un ragazzino e gli dissi: “Boy, se non muovi quei piedi puoi anche uscire dal campo”. Mi spiegarono, preoccupatissimi, che era il figlio dell’Emiro. La scorsa estate sua sorella ad Aspen mi ha invitato di nuovo e stiamo mettendo in piedi una collaborazione. Oggi qui ci sono strutture fantastiche».
Lei ha allenato decine di campioni, fra cui dodici numeri 1: chi le manca?
«Roger Federer. È un campione in tutto quello che fa, una qualità che hanno in pochissimi. Se ce ne fossero più come lui, vivremmo in un mondo migliore».
Come si allena un fuoriclasse?
«Capendo di cosa ha bisogno. Boris Becker diceva sempre: “Nick è un genio perché sa trattare con ciascuno in maniera molto semplice. Ad Agassi bastava un’ora e mezzo al giorno, Monica Seles mi è costata tre mogli: voleva che stessi in campo con lei fino a mezzanotte. La mamma di Courier mi chiese di cambiare il rovescio di suo figlio, che impugnava la racchetta come una mazza da baseball. Io lo guardai un po’ e gli dissi: Jim, dimenticati il rovescio, gioca solo di diritto».
Qual è la qualità più importante di un coach?
«Deve essere un educatore. Sono cresciuto in un quartiere di neri e italiani, mia nonna quando tornavo da scuola mi chiedeva se avevo dato retta alla maestra, e mi mandava a giocare. Oggi vedo i genitori assillati dai voti e dai risultati. Ma ai ragazzi bisogna far capire soprattutto che sono amati, e che se danno il massimo sono comunque dei vincenti. Sennò si rischia di perderli».
Nel 2018 vinceranno sempre i soliti?
«Per i Fab Four la vedo dura. Fra le donne, con Serena e Sharapova non al massimo, può vincere chiunque. Comunque ho già offerto l’iscrizione gratis alla mia Academy alla figlia di Serena: nel caso non possa permettersela...».
Nadal può raggiungere il record di Slam di Federer?
«Dipende dal fisico. Poi dovrà vedersela con Federer stesso e con le nuove generazioni».
Allenerebbe un «bad boy» come Nick Kyrgios?
«È il mio tipo! Sono abituato a caratteri del genere: o pensate forse che Agassi fosse uno facile? Nick lo inviterei a pranzo e per due ore io starei solo ad ascoltare, senza dire nulla. Alla gente non bisogna mai imporre le cose».
Riuscirebbe a gestire anche Fabio Fognini?
«Fabio è il tipico italiano: bello come me. Grande talento, ma non ha ancora raggiunto il suo potenziale. Lo filmerei ogni volta che perde il controllo, poi lo metterei davanti al video e uscirei dalla stanza. Le immagini spesso contano più delle parole».
C’è qualcosa che si rimprovera?
«Di errori ne ho fatti, non sono perfetto. Adesso gira un bel documentario su di me, si chiama “Love means zero” (L’amore conta zero), non ne esco sempre bene. Ci sono anche le immagini di quella volta a Parigi in cui Courier, che era un mio allievo, si mise a piangere in campo perché vide che ero nel box di Agassi, che stava giocando contro di lui».
Nel tennis di oggi conta solo il fisico?
«Contano la tecnica, il fisico e l’aspetto mentale. Non puoi permetterti di avere un lato debole. Sampras era alto 1 e 85 e sembrava un gigante, oggi la media è di 1 e 90 fra i maschi e 1 e 80 fra le donne. Non vuol dire che i piccoletti non abbiano chance, ma fra il grande e il piccolo vince sempre quello grande, se ha un po’ di cervello».
Qual è il segreto del suo successo?
«Sono pazzo. Quando ho aperto la mia Academy mi davano del matto, poi tutto il mondo mi ha copiato. I pazzi fanno cose che la gente normale non fa: perché ha paura di fallire. Non è il mio caso».