La Stampa, 8 gennaio 2018
Flat tax, maneggiare con giudizio
Quasi tutti i principali partiti politici dicono di voler tagliare le tasse, ma il centro destra vuole farlo attraverso l’introduzione di una flat tax, un cambiamento radicale anche se introdotto gradualmente. È una buona idea?
Che cos’è la flat tax? Ce ne sono tante varianti, ma l’idea principale è quella di avere un’unica aliquota per l’Irpef (invece di aliquote diverse per diversi scaglioni di reddito), per le altre tasse sul reddito (come la tassa sul reddito delle società, l’Ires) e, in alcune varianti, per l’Iva. Nella versione proposta dalla Lega questa aliquota sarebbe del 15 per cento. In quella dell’Istituto Bruno Leoni, che sembra piacere a Stefano Parisi, del 25 per cento. Forza Italia non ha ancora definito una sua proposta.
Una flat tax ha tre principali obiettivi. Primo, ridurre la pressione fiscale: non è questa necessariamente una conseguenza della flat tax (dipende dall’aliquota), ma le aliquote proposte comporterebbero una riduzione del carico fiscale. Secondo, semplificare la tassazione. Terzo, cambiare la progressività del sistema di tassazione.
Riguardo al primo obbiettivo (ridurre la pressione fiscale), la questione è trovare le coperture. È troppo rischioso a priori pensare che il problema possa risolversi da solo, che minori tasse portino a minore evasione e a maggiore crescita e quindi a più entrate (ipotesi che sta alla base della proposta della Lega). I tagli di tasse per avere un effetto sulla crescita devono essere percepiti come credibili e permanenti: per questo occorre trovare delle serie coperture. Vorrei anche sottolineare un secondo punto: occorre valutare la validità delle coperture in un quadro complessivo di finanza pubblica. Se la flat tax costa, come nella proposta del Bruno Leoni, 30 miliardi (40 miliardi nella versione della Lega) e se anche si individuano misure pari a tale importo, vuol dire che queste misure non possono essere usate per altri scopi, compreso ridurre il deficit e il debito pubblico. Da qui la necessità per i partiti politici di inserire questa e altre proposte in un quadro complessivo di finanza pubblica che chiarisca quali obiettivi si porrà il nuovo governo in termini di deficit, debito e totale delle entrate e delle spese (vedi il mio articolo apparso il 19 dicembre su questo giornale sui «tre quesiti» ai partiti politici, quesiti cui ha per ora risposto solo la lista Più Europa di Emma Bonino).
Il secondo obiettivo (semplificare la tassazione) è un’esigenza prioritaria per l’Italia. Ciò detto, la complicazione dei moderni sistemi di tassazione, compreso il nostro, non deriva tanto dall’esistenza di diverse aliquote e scaglioni di tassazione, ma dalla sovrabbondanza di piccoli tributi e, soprattutto, dal fatto che la base imponibile delle principali tasse è estremamente complessa per via delle molteplici agevolazioni fiscali introdotte nel corso del tempo a favore di questo o quel settore o di questa o quella attività. Sono le famose «tax expenditures» o spese fiscali. Sono in tanti a volerle ridurre; tutti, direi, fino a quando arriva il momento di specificare quali agevolazioni tagliare. L’introduzione di una flat tax potrebbe essere il catalizzatore per superare le difficoltà finora incontrate e semplificare il sistema fiscale. Ma, in via di principio, queste agevolazioni potrebbero essere eliminate anche senza introdurre un’unica aliquota di tassazione.
Resta il terzo obiettivo che è forse quello che più caratterizza la flat tax: ridurre la progressività della tassazione. Ho detto ridurre, non eliminare perché anche unificando l’aliquota sull’Irpef, per esempio al 25 per cento, il rapporto tra Irpef pagata e reddito sarebbe diverso da persona a persona (o da famiglia a famiglia) perché una parte del reddito (per esempio i primi 10.000 euro) sarebbe esente da tassazione. Al crescere del reddito aumenterebbe quindi la parte che è tassata al 25 per cento e il livello medio di tassazione salirebbe con il livello del reddito fino a un massimo del 25 per cento. Quindi l’Irpef resterebbe progressiva. Ma sarebbe meno progressiva di quello che è attualmente. È una buona idea ridurre la progressività del nostro sistema di tassazione? La questione è più politica che economica: non ci sono studi evidenti che concludono che tassazioni marginali elevate, nel limite del ragionevole, riducono l’incentivo a lavorare dei più ricchi, anche se in un’economia globalizzata la tentazione di «andarsene all’estero» potrebbe essere aumentata rispetto al passato. Quando dico che è una questione politica intendo dire che la scelta di quanto debba contribuire chi ha un reddito più elevato al finanziamento della spesa pubblica riflette diversità di opinione sull’importanza dei principi di solidarietà rispetto a quelli di responsabilità individuale e a quelli di giustizia sociale rispetto a quelli di libertà individuale.
In conclusione, la flat tax non deve essere demonizzata, anzi può essere un potente catalizzatore nel ridurre la pressione fiscale e nel cambiare un sistema di tassazione certamente troppo complesso, anche se questi risultati potrebbero essere ottenuti anche senza un’aliquota unica. In ogni caso, occorre essere chiari sulle coperture (che non possono essere basate sulla speranza di un recupero di entrate), valutare l’impatto della flat tax in un quadro complessivo di finanza pubblica (che ancora manca) ed essere chiari sulle sue conseguenze in termini redistributivi (che dipendono dai dettagli della proposta e che possono piacere o meno politicamente).