La Stampa, 6 gennaio 2018
I sacchetti dove finiscono le poche idee
La vicenda dei sacchetti di plastica biodegradabili mostra quanto sia facile distorcere, anche involontariamente, il senso generale di leggi e provvedimenti e in quale stato di confusione vivano i cittadini non solo su grandi temi ma anche di fronte a scelte apparentemente banali. Il che potrebbe contribuire a spiegare le ragioni del livello record degli elettori incerti o determinati a non votare.
La direttiva del 2015 dell’Unione Europea sull’uso dei sacchetti di plastica biodegradabili non aveva lo scopo di introdurre una nuova tassa bensì quello di scoraggiare l’uso di un materiale ragionevolmente ritenuto pericoloso per l’ambiente – rappresentato dai contenitori non biodegradabili – e di poter facilmente controllare la correttezza del materiale utilizzato. L’interpretazione più ragionevole è che dallo scontrino del compratore debba risultare che i prodotti alimentari acquistati siano stati imbustati nel contenitore giusto, ossia accettabile per l’ambiente, in quanto destinato a decomporsi naturalmente.
Le cose dovrebbero ragionevolmente andare così: il signor Bianchi fa una spesa di 10 euro e, per imbustare i prodotti acquistati, gli vengono forniti due sacchetti biodegradabili dal costo di 0,02 euro l’uno.
Il conto segnerà: spesa per prodotti acquistati euro 10,0 + spesa per i due sacchetti 0,04 – sconto sacchetti 0,04. In realtà lo sconto sul sacchetto il venditore lo faceva già prima, nel senso il sacchetto può essere considerato un tacito «omaggio»; con il nuovo sistema, il carattere di «omaggio» può diventare esplicito e potremo mostrare all’Europa che abbiamo usato contenitori giusti.
In Italia la discussione si è subito avvitata sulla possibilità del riuso, più o meno molteplice, del medesimo sacchetto e sui supposti legami politici di una delle imprese produttrici dei sacchetti. Il problema di lungo termine si è tradotto così in una polemica immediata; non ci sarebbe molto da stupirsi se qualcuno proponesse ispezioni delle forze dell’ordine per controllare la giusta composizione chimica dei sacchetti nonché l’obbligo per le imprese di tenere un registro – regolarmente bollato e vidimato – dei sacchetti acquistati e distribuiti ai consumatori, tanto per semplificare il compito di chi gestisce un’impresa e per incoraggiare i giovani a mettersi in proprio.
Tutto questo avviene con un occhio ai risultati che usciranno dalle urne nella notte tra il 4 e il 5 marzo prossimo. Con la scadenza elettorale in mente, tutto si sta schiacciando su un presente inacidito, tutto è funzionale a quei risultati, anche il numero di pesci che moriranno soffocati tra cent’anni se continuassimo a usare senza ritegno la plastica non biodegradabile.
Siamo quindi di fronte a un altro esempio di strumentalizzazione del futuro per scopi legati alle battaglie politiche del presente. Del futuro vero – ossia di ciò che capiterà al mondo, all’Europa, a questo Paese di qui a quindici o vent’anni – non sembra invece importare molto a nessuno. Che tipo di Paese vogliamo essere? Quali saranno i settori portanti dell’economia? Quali servizi pubblici saranno forniti e quale sarà il carico fiscale? I «programmi elettorali», che un tempo erano un fondamento essenziale dei discorsi politici, vengono scritti all’ultimo momento con scarsa attenzione alla coerenza e alla realizzabilità e non contengono quasi mai un discorso coerente su simili argomenti; si cerca di stimolare l’emozione, non l’attenzione dell’elettore, di fargli «comprare», con il suo voto un simbolo, una faccia, uno slogan, non un programma.
Alla fine di questa confusa esplosione di sentimenti e risentimenti rimaniamo con il sogno di ricevere per posta – oltre che di poter leggere su Internet – nelle prossime settimane un programma elettorale vero. La busta potrà anche essere di plastica. Purché biodegradabile, naturalmente.