La Stampa, 7 gennaio 2018
Le basi di Erdogan rilanciano il sogno ottomano. Dal Sudan a Doha l’espansione militare turca spaventa i sauditi
Nel suo discorso di Capodanno, il Presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, lo aveva promesso: nel 2018 la politica estera sarà «attiva e incisiva». A guardare le mosse della Mezzaluna nell’ultimo anno e mezzo, si può parlare di ambizioni neoimperiali, con un richiamo, ormai irrinunciabile, al passato dei sultani. Un vero «sogno ottomano». E se per il momento dai tavoli internazionali non sono ancora arrivati risultati concreti, il presidente Erdogan ha capito che, per influire sullo scacchiere mondiale, bisogna avere le pedine nei posti giusti. E lui ci sta lavorando da anni a suon di costruzioni di basi militari e infrastrutture e progetti di cooperazione nel settore della difesa, spesso camuffati dietro un nuovo impulso agli accordi commerciali.
La casella più recente è quella sul Mar Rosso. La Turchia ha ottenuto l’affitto dell’isola di Suakin, in Sudan. Un luogo evocativo per le reminiscenze imperiali di Erdogan. L’isola era un importante porto durante il periodo ottomano. L’accordo ufficialmente è commerciale e prevede anche il restauro di una moschea e di alcuni edifici storici dell’epoca dei sultani. Ma si trova davanti all’Arabia Saudita, non lontano dallo Yemen e dalle rotte del petrolio. Il timore, per Riad e Il Cairo, è che il vero obiettivo del presidente sia quello di costruire una base militare. Con il Medioriente in ridefinizione e Ankara ormai parte dell’asse Russia-Iran, è tutto fuorché una prospettiva rassicurante, aggravata dalla crisi fra Arabia Saudita e Sudan a causa della guerra in Yemen. La Turchia ha altre due pedine importanti al suo attivo, una nel Golfo Persico e l’altra nel Mare Arabico. Nel primo c’è la base militare di Doha, in Qatar, con 2000 militari, che ha rappresentato uno dei motivi della crisi dell’estate scorsa fra l’emirato e il blocco sunnita con in testa sempre l’Arabia Saudita, letteralmente circondata da basi turche. Nel Mare Arabico c’è la base di Mogadiscio, la più grande base turca all’estero e il porto della capitale somala, di cui Ankara si è aggiudicata la gestione per i prossimi 20 anni, sperando di ottenere lo stesso risultato con quello di Kisimayo, posto a Sud. L’espansione in Africa, soprattutto in Somalia, è quella su cui il presidente turco ha lavorato più alacremente, prima con apertura di sedi diplomatiche e nuove rotte della Turkish Airlines, e poi sfruttando i canali dell’ex alleato, ora grande nemico, Fethullah Gulen, che con la sua rete di scuole poteva accedere a contatti di qualsiasi livello.
Il risultato oggi, sono interi quartieri e importanti infrastrutture costruiti da aziende della Mezzaluna, ed Erdogan accolto come benefattore a ogni sua visita ufficiale.
Il controllo dei mari più importanti nella geopolitica del futuro, non gli ha fatto dimenticare le regioni vicino a casa, su cui la Turchia ritiene di vantare un primato, proprio per motivazioni storiche. In Iraq la presenza di un contingente nella base vicino a Bashiqa è da mesi motivo di contrasto con il governo di Baghdad. In Siria, Ankara ha basi a Al-Bab, Al-Rai, Akhtarin, Jarablus, Atme, espansione poco gradita ai curdi siriani. Nel Mediterraneo c’è Cipro Nord, la parte dell’isola occupata a maggioranza turca, dove ci sono 17mila militari. Da non dimenticare, il Caucaso. La costruzione di una base in Azerbaigian era considerata imminente nel 2016, ma il presidente, Ilham Aliyev, ha preso tempo. Accordi di cooperazione militare sono attivi sia con la Georgia sia con la stessa Baku. I tre Paesi poi sono uniti dalla ferrovia Baku-Tbilisi-Ceyhan, che ha fatto rinascere l’antica via della seta. Una Turchia che espande la sua influenza verso Est. Dall’altra parte, ci sono i suoi vecchi alleati occidentali, soprattutto l’Europa, di cui l’impero ottomano rappresentava il grande malato. E questa è una parte di passato che al presidente turco non piace per niente.