La Stampa, 7 gennaio 2018
Teheran, nelle fondazioni caritatevoli il potere occulto degli ayatollah
C’è un filo che lega gli assalti alle banche da parte dei manifestanti e la finanza occulta degli ayatollah, e dei Pasdaran. Le proteste esplose il 28 dicembre scorso si sono sfogate su molti bersagli, ma tra i favoriti ci sono filiali e sportelli, distrutti e incendiati a decine. La ragione è la crisi di numerosi istituti locali, che hanno «congelato» i depositi e bruciato i risparmi delle famiglie. Una gestione sciagurata del credito che ha alle origini le fondazioni caritatevoli, conosciute come Bonyad.
Le Bonyad hanno come scopo ufficiale lo sviluppo del benessere e la distribuzione della ricchezza secondo uno dei cinque pilastri dell’islam, la zakat, la tassa obbligatoria che i ricchi devono pagare in favore dei meno fortunati. La corrente sciita ha sviluppato questo principio attorno alle grandi fondazioni sorte nei mausolei degli imam successori di Maometto. Il maggiore è il santuario dell’Imam Reza a Mashhad, sede della più potente delle fondazioni, controllata dalla Guida suprema Ali Khamenei. Proprio a Mashhad, terza città santa sciita in Iran e roccaforte dell’integralismo, è cominciata la rivolta, cavalcata all’inizio dai nemici del presidente riformista Hassan Rohani, a cominciare dal predecessore Mahmoud Ahmadinejad, ora sotto inchiesta. Ma la rabbia popolare si è ritorta quasi subito anche contro di loro.
L’economia «compassionevole» immaginata da Khomeini si è trasformata in speculazione, che arricchisce ayatollah e le loro famiglie e sodali, finanzia le avventure all’estero dei Pasdaran e scarica poi le perdite sulla povera gente. Uno degli schemi usati, descritto dall’attivista Raman Ghavami, è quello di erogare prestiti con un’abitazione come garanzia, ma del valore di dieci volte superiore. Il beneficiario non restituisce, l’istituto pignora la casa, ma ci rimette comunque milioni.
Operazioni di questo tipo hanno arricchito le clientele dei religiosi ed esasperato i risparmiatori. Le Bonyad, secondo l’analista Abbas Bakhtiar, rappresentano «il 30% del Pil» iraniano, quindi circa 120 miliardi di dollari ai valori attuali. Simili a organizzazioni no-profit, hanno come principale fonte di entrate la zakat e il giro d’affari legato ai santuari (hotel, ristoranti, negozi religiosi), non pagano tasse, sono fuori dal circuito dei pagamenti internazionali, e organizzate in decine di piccole imprese, che vanno dal commercio, all’edilizia, alla finanza.
Oggi si contano almeno 120 Bonyad in Iran. Le prime sono state fondate dallo scià Mohammed Reza Pahlavi, come forma di controllo dell’economia e mezzo per arricchire la famiglia reale. Gli ayatollah hanno replicato e ampliato lo schema. Le loro fondazioni sono anche nel mirino dei servizi segreti americani, perché servono ad aggirare le sanzioni internazionali e a finanziare milizie sciite in Medio Oriente. Alcune Bonyad sono gestite dai Guardiani della rivoluzione, e al corpo di élite Al-Quds guidato dal generale Qassem Soleimani: la Bonyad e Mostazafan, la Fondazione degli oppressi, come pure la Fondazione dei Martiri. Alcuni operativi dei pasdaran hanno come funzioni di copertura un impiego in una delle aziende collegate, banche, centri culturali.
Il vero motore del regime è però l’Astan Quds Razavi, la fondazione che gestisce il santuario dell’Imam Reza a Mashhad. Khamenei ha prima piazzato al vertice l’ayatollah ultraconservatore Abbas Vaez-Tabasi e poi alla sua morte nel marzo 2016 il fidato Ebrahim Raeisi, il più serio sfidante di Rohani alle ultime presidenziali. Una mossa che ha stretto ancor più il legame fra la Guida suprema e una macchina da soldi con un fatturato segreto, ma nell’ordine di una decina di miliardi.