La Stampa, 7 gennaio 2018
L’altra via per il fine vita. Ecco le cure palliative che le famiglie ignorano
Un cappuccino molto caldo. Un piatto dei ravioli preferiti. Stare ancora un po’ con tua figlia. Ascoltare la musica che ti ha accompagnato per tutta la vita. Accarezzare il tuo cane. Sistemare le pratiche per la liquidazione del Tfr, per la pensione di reversibilità. Dire quello che non sei mai riuscito a dire. Non dirlo, perché non sarai più in grado di controllare le conseguenze.
Un bacio alla persona che ami, preoccupandosi del suo futuro senza di te. Le ultime parole, gli ultimi desideri, gli ultimi silenzi di chi è giunto alla fase finale della malattia. Quei pazienti che, con sbrigativa e ingiusta semplificazione, chiamiamo terminali.
Pochi posti letto
In Italia sono 313.000 ogni anno i malati terminali e l’Organizzazione Mondiale della Sanità in un documento del 2017 ricorda che «la necessità di cure palliative non è mai stata così grande, in relazione all’invecchiamento della popolazione e all’aumento delle malattie croniche e degenerative». Ne avrà bisogno la gran parte di noi. L’accesso a queste cure – il nome deriva dal latino Pallium, il mantello che si stende sopra il corpo per scaldarlo e proteggerlo, il giorno loro dedicato è l’11 novembre, San Martino – è regolato dalla Legge 38 del 2010. L’articolo 1 stabilisce: «La legge tutela il diritto dei cittadini ad accedere alle Cure Palliative». Ma 2 italiani su 3 ignorano questo diritto e l’esistenza di una rete diffusa di 229 Hospice capaci di 2500 posti letto e di provvedere all’assistenza domiciliare per porgere cure e conforto. Per ridurre il dolore e dare dignità alla morte. Sempre l’O.M.S. constata che in particolare «i bambini hanno scarso accesso alle cure palliative».
Scienza e umanità
Il 40 % dei pazienti ricoverati negli Hospice soffre di malattie oncologiche, il 60% di malattie croniche e degenerative, che comprendono anche la demenza. Per ogni paziente viene messo a punto un piano individuale, tanto più efficace quanto il ricovero o l’avvio dell’assistenza avviene per tempo. «Il nostro lavoro prevede competenze specifiche, ma anche trasversali: comunicare con la famiglia, saper parlare, tacere, aspettare. La fine della vita è il momento più importante della vita e lo vive meglio chi vi giunge consapevole della propria condizione», dice Italo Penco presidente della Società Italiana di Cure Palliative e direttore sanitario del Centro di Cure Palliative Fondazione Sanità e Ricerca di Roma, il primo Hospice attivo nel Centro-Sud.
In Italia, la possibilità di accedere a queste cure rimane molto disomogenea. Nell’ultimo rapporto al Parlamento, datato 2015, il Ministero della Sanità constata che «non risulta ancora realizzato il numero di strutture previste con i finanziamenti messi a disposizione». Se la Lombardia dispone di 60 strutture e 738 posti letto, in Piemonte sono, rispettivamente, 13 e 146, in Sicilia 13 e 126, in Veneto 22 e 192, in Puglia 10 e 150. Rimane molto da fare.
«Le cure palliative non sono un palliativo. Significano prendersi cura della persona, con scienza e umanità insieme. Quando una cura non è più efficace, allora bisogna decidere: è meglio aggiungere giorni alla vita, o vita ai giorni che rimangono?», riflette Penco. L’équipe che segue questi malati è formata da medici, infermieri, operatori socio-sanitari, fisioterapisti, psicologi, volontari, anzi volontarie: la netta maggioranza sono donne. Il loro lavoro coordinato permette di unire «scienza e umanità», perché quando una persona giunge a questa fase della vita il suo non è soltanto un duro dolore fisico, che oggi è possibile controllare grazie ai farmaci, ma un «dolore totale» che coinvolge il malato, i parenti, le persone care, e va affrontato nella sua complessità, prima e dopo la scomparsa: molti Hospice prevedono degli incontri dedicati all’elaborazione del lutto. «Nelle nostre facoltà di medicina non esiste la specialità in cure palliative e gli studenti non le incontrano neppure durante il percorso di laurea», lamenta Penco. In Germania, invece, queste cure fanno parte del normale corso di studio dei futuri medici. La spinta decisiva per il loro riconoscimento è venuta da un medico italiano, Giandomenico Borasio, laureato a Monaco e docente in quella Università. Al Bundestag si è rivolto ai deputati con chiarezza: «Tutti voi, quando giungerete al fine-vita, avrete il 90% di probabilità di essere curati non da specialisti di cure palliative e di soffrire di più».
Penco imputa all’ assenza di formazione specifica, oltre che a una resistenza psicologica dei malati e delle loro famiglie e alle non sempre precise indicazioni da parte dei medici di base, la scarsa informazione della maggior parte degli italiani su un loro diritto. «A 7 anni dalla promulgazione la Legge 38 è ben lontana dall’essere applicata», conferma Franca Benini, direttrice a Padova di uno dei soli 4 Hospice pediatrici attivi in Italia. Per Sabrina Pientini, responsabile dell’Hospice Fiore di Primavera a Prato, «per molti malati e molte famiglie c’è ancora il tabù dell’Hospice, considerato un luogo dove si va a morire. Fino a quando il problema non si pone, ci si informa poco. Il medico di famiglia ha difficoltà a gestire questo tipo di malati e tende a ricoverarli in ospedale, attraverso il pronto soccorso. Più si conosce come funzionano davvero gli Hospice, meglio è».
Persona nel suo insieme
«Lavorare con la terminalità in un ospedale è desolante. Scarsa privacy, orari rigidi, limite al numero di visitatori, operatori indaffarati, nessun supporto psicologico, procedure invasive fino alla fine. Le cure palliative scardinano la separazione fra la mente/spirito e il corpo che contraddistingue la medicina moderna», dice Niccolò Acciaioli. È un «infermiere tanatologo», ha frequentato all’Università di Padova il master Studi sulla morte e sul morire. Insiste sulla differenza tra i due contesti: «In Hospice consideriamo la persona nel suo insieme, non come un pezzo di organo da curare. I nostri pazienti chiedono che qualcuno si prenda carico delle loro sofferenze fisiche e spirituali. Noi infermieri siamo quelli che chiudono gli occhi ad un malato e magari cinque minuti dopo andiamo a scherzare con un altro paziente».
La differenza è anche nei costi: «Ci siamo resi conto che, investendo in una morte migliore, possiamo risparmiare denaro da destinare ad altre spese sociali», ha scritto la ricercatrice inglese Katherine Sleeman, mentre in uno studio pubblicato nel New England Journal of Medicine, 12 medici di Boston ricordano come «i pazienti che ricevono cure pallative subiscono cure meno aggressive e hanno un più lungo periodo di sopravvivenza». Il costo medio della degenza quotidiana in un Hospice è del 30% inferiore rispetto ad un ospedale. E, come ha raccontato in un toccante libro autobiografico Chiara Palazzolo, in un Hospice il malato non si sentirà mai dire «tanto ormai». «Per lavorare negli Hospice è fondamentale entrare in empatia con il paziente. Se non ci riesci, non fare questo lavoro», dice Sabrina Pientini.
La città della vita
«Sessant’anni fa l’85% degli anziani era autosufficiente, il 15% non lo era. Oggi le percentuali si sono esattamente invertite», constata Paolo Fusaro, specialista in geriatria, responsabile del reparto pazienti in stato vegetativo e dell’Hospice dell’Opera Immacolata Concezione di Padova, fondazione privata riconosciuta dalla sanità pubblica. L’Hospice è all’interno di una struttura molto ampia, estesa su 12 ettari: Civitas vitae, una città della vita, come è stato deciso di chiamarla, che comprende molti reparti, ma anche appartamenti in affitto, un parco, attrezzature sportive, la presenza costante di una Guardia medica. Fusaro insiste sull’importanza del «percorso comunicativo» con i pazienti in fine-vita: «Nella prima fase il malato non è informato esattamente delle sue condizioni, ma con il tempo emerge la verità. Noi comunque non siamo come i medici anglosassoni che ti dicono in faccia: “Hai quattro mesi di vita”». La dottoressa Anna Stevanin lavora qui dal 2012: «Il malato sente che si può fidare di noi e allora si avvia un rapporto anche inconscio, anche inespresso, ma fondamentale. Noi medici e infermieri diventiamo le persone che devono gestire il loro dolore, la loro angoscia, che emerge soprattutto di notte, e controllare la disperazione dei familiari». Quale il confine tra cure palliative e eutanasia? «Quando compila la Dichiarazione Anticipata di Trattamento, prevista dalla Legge sul Testamento Biologico, la netta maggioranza delle persone esprime una volontà anticipatoria, contro l’accanimento terapeutico. La mia impressione è che ormai sia la società a chiedere meno interventismo», risponde Fusaro.
«Ho conosciuto Peppino Englaro: se per lui che è il padre sua figlia è morta, io gli porgo le mie condoglianze. Ma ogni caso è singolo e irripetibile e il confine tra desistenza, cure palliative, eutanasia è uno spazio molto largo di idee e di pratiche». L’eutanasia? «Io non ho nulla a che fare con l’eutanasia. Noi lavoriamo per la vita: dare dignità, senso e valore alla vita che rimane», dice Massimo Bernardo, responsabile dell’Hospice di Bolzano.
La Metro C di Roma
Le stanze degli Hospice si assomigliano: tutte singole, hanno un piccolo ingresso, il bagno, il letto per il paziente, il divano letto per chi desideri dormire vicino, un tavolo, una sedia, un armadio, una finestra. I colori non sono accesi, aggressivi, ma tenui. Sono quasi sempre tutte occupate. Nei reparti, molto spazio è lasciato a salottini predisposti per conversare con riservatezza, riposare, riflettere, ascoltare musica. Mai mancano una cucina, una tisaneria, altri ambienti comuni. All’Hospice di Bolzano, una stanza è occupata da un paziente romano. «Mi affaccio alla finestra di casa e a sinistra vedo il Colosseo, a destra san Giovanni, di fronte ho la Basilica di San Clemente. Quanto è bella Roma». Chiede della Linea C della Metropolitana, se sarà completata e fino a dove. Rispondo che festeggeremo insieme l’apertura della stazione di San Giovanni. «Allora mi augura lunga vita!». Ha voglia di alzarsi, un infermiere lo accompagna a passeggiare lungo i corridoi. «Sempre forza, mi raccomando», dice facendomi gli auguri per l’anno appena iniziato.