Il Sole 24 Ore, 7 gennaio 2018
Piccolo mondo ebraico nel Meridiano su Phillip Roth
Non gli hanno mai dato il Nobel, ma non è detto che fosse lui a non essere degno del premio. Negli ultimi vent’anni – a partire, dunque, da Pastorale americana (1997) – Philip Roth è sempre figurato nella lista dei favoriti, ma per qualche ragione che nessuno è mai riuscito a chiarire, il vincitore è poi risultato qualcun altro. Ora, poiché il Nobel è un premio che per statuto non dovrebbe essere assegnato alla carriera ma al miglior libro uscito nell’anno, il tormentone si può pensare che debba finire. Roth ha infatti dichiarato nel 2012 di non voler più «combattere con la scrittura».
Il rammarico dei tanti lettori, anche in Italia, che non possono sperare in un suo nuovo romanzo, è ora mitigato dal piacere di poterlo rileggere nel primo di tre Meridiani, la cui pubblicazione sarà completata entro la fine del 2018. Romanzi (1959-1986) – curato con grande competenza da Elèna Mortara con l’ausilio, per la Cronologia e le Notizie sui testi, di Angela Demurtas e Paolo Simonetti – contiene la traduzione di otto libri di Roth: Goodbye, Columbus (1959), Lamento di Portnoy (1969), La mia vita di uomo (1974), Lo scrittore fantasma(1979), Zuckerman scatenato (1981), La lezione di anatomia (1983), L’orgia di Praga (1985) e La controvita (1986).
Nel presentare una riedizione di Goodbye, Columbus lo stesso Roth aveva scritto, una trentina di anni fa, che a guidare l’impulso a metter su carta le proprie emozioni era stato il sogno di ripudiare e allo stesso tempo rimanere attaccato all’universo ebraico e provinciale nel quale era cresciuto. Una contraddizione che non si sarebbe mai risolta e che, intrappolata in un gioco di specchi – pseudonimi, travestimenti, mutevoli punti di vista, confessioni e menzogne –, è diventata una miniera di idee per questo genio della scrittura che porta a spasso i lettori al guinzaglio da più di cinquant’anni, e ha dato luogo a una lunga storia, piena di sconcezze e sberleffi, raccontata da un cialtrone camuffato da autore (da più autori sotto falso nome), che, al contrario di quanto afferma il teatrante che interpreta Macbeth sul palcoscenico, non è detto che significhi nulla.
Da Goodbye, Columbus a La controvita, e poi in tutte le opere che appariranno nei successivi volumi dei Meridiani, il protagonista di questo viaggio al termine di se stesso è uno solo; e non si tratta di un personaggio inventato, ma dello stesso Philip Roth. Le vicende che ci racconta ora un narratore in prima persona che finge di parlare di sé, ora un testimone che si dice al corrente di fatti altrui, sono pensieri di un ventriloquo, attribuiti via via a questo o quell’alter ego, o a questo e a quell’individuo, come le parti di una commedia.
Roth ha sempre affermato di non essere portato per temi e argomenti di fantasia ma è in possesso di una potente immaginazione. Sbirciando tra le pagine di Roth scatenato di Claudia Roth Pierpoint (Einaudi, 2015), ci accorgiamo che ha sempre usato persone e cose viste come un trampolino da cui partire per un gran salto, e le ha crittografate nei suoi romanzi. C’è qualcosa di incoercibile nella sua mente, ed è l’impossibilità di riferire un fatto senza distrarsi, ovvero senza ricamarvi sopra, divagare, distorcerlo, fingere di confondersi e falsificarlo: «Tutto ciò che posso dirti con certezza», scrive Nathan Zuckerman, suo narratore vicario in La controvita, «è che io non ho un io, e non voglio e non posso assoggettarmi alla buffonata dell’io. Quella che ho è una varietà di interpretazioni in cui posso produrmi: un’intera troupe di attori che ho interiorizzato, una compagnia stabile alla quale posso rivolgermi quando ho bisogno di un io. Ma sicuramente non possiedo un io indipendente dai miei ingannevoli tentativi artistici di averne uno. E non lo vorrei. Sono un teatro e nient’altro che un teatro».
Scrittore del tutto alieno dal concepire una storia sotto forma di allegoria o di semplice metafora della vita o del mestiere di scrivere, l’universalità delle storie di Roth consiste in una paradossale aderenza al dettaglio quotidiano, rielaborato con una puntigliosa e quasi disperata volontà di evasione: «Si comincia con il materiale grezzo. I fatti. La cosa può andare avanti per giorni interi, per anni. La mente li prende in considerazione con calma e ci mette il suo tempo, e un giorno li passa all’immaginazione, che è un macellaio e non va tanto per il sottile. I fatti li randella sulla testa, gli taglia la gola e gli strappa le viscere a mani nude. Quando ha finito, un fatto non è più un fatto. Quel che resta è un romanzo».
Con il libro di esordio, Goodbye,Columbus, Roth aveva seguito l’esempio di Bellow e Malamud e messo in piazza certi «segreti tribali», finendo però per guadagnarsi la fama di ebreo antisemita. Con Lamento di Portnoy era diventato celebre dalla sera alla mattina e aveva guadagnato un sacco di soldi, ma aveva anche dovuto andare a nascondersi. Gli sputi e gli insulti che riceveva per strada gli avevano fatto sospettare per un momento di essere diventato anche antiamericano. Con i romanzi che seguirono aveva insistito nel richiamare l’attenzione sul fatto che il sesso, latente o presente, represso o praticato, è la cosa più importante nella vita di un uomo: non indispensabile come l’aria o l’acqua, ma determinante più di ogni altra cosa.
Le accuse di maschilismo piovvero su quel chiodo fisso e si infittirono con la comparsa sulla scena prima di Zuckerman e poi di Kepesch che recitarono la parte dei fantasmi della sua inquieta coscienza. La quale però, dopo i primi viaggi a Praga all’inizio degli anni ’70, fu indotta ad abbandonare il sé ossessivo degli esordi per la ricerca di un io posticcio ma funzionale che assecondasse il suo desiderio di raccontare.
La Cecoslovacchia era, allora, un Paese in cui i libri e le idee, sottoposti a censura, avevano fatto sì che la letteratura acquistasse un’importanza tale da indurre i romanzieri e i poeti a fare di tutto, anche rischiare la prigione e la vita, per scrivere e rimpiazzare ciò che era sparito o era stato messo a tacere. Al contrario, nei Paesi dell’Occidente, dove tutto era a portata di mano, la letteratura era spesso avvertita come qualcosa di estraneo o di superfluo. Un peso morto e non un oggetto di desiderio. Un obbligo a cui si sottoponevano gli studenti di malavoglia e con la mente altrove, magari davanti a un televisore sempre acceso.
Roth divenne amico di Ivan Klíma e Milan Kundera e li aiutò a pubblicare in Inghilterra e negli Stati Uniti; e pur continuando a scrivere dei suoi argomenti – il sesso e il corpo, le paure e le ossessioni giovanili, le malattie e la morte – dopo Praga divenne uno scrittore con una nuova consapevolezza morale. I suoi prestanome rimasero se stessi, ma lui si accorse anche della vita degli altri. Nei suoi romanzi continuarono a succedere cose che non si sa perché accadano, ma poiché Roth non ha mai sentito il bisogno «di approvare o disapprovare», a guadagnarci è stata la letteratura. E, per i lettori, è stato un nuovo modo di guardarsi allo specchio.
Philip Roth, Romanzi (1959-1986), a cura di E. Mortara, P. Simonetti, Meridiani Mondadori, Milano, pagg. CXXV-1882, € 80