Il Sole 24 Ore, 7 gennaio 2018
Raffaello tifava Roma (antiqua). Gli ultimi grandi progetti dell’artista sono sintetizzati in una lunga voce del Dizionario, giunto al 90° volume
In questa pagina si anticipa uno stralcio della voce «Raffaello», contenuta nel 90° volume del «Dizionario Biografico degli Italiani» Treccani. Opera iniziata nel 1960, si concluderà nel 2020, con 40mila biografie. Il suo arco cronologico va dalla caduta dell’impero romano d’Occidente a oggi. È il dizionario biografico su carta più vasto e rigoroso esistente al mondo (consultabile anche in rete: www.treccani.it).
Nei decenni ci sono stati mutamenti di prospettiva: inizialmente fu un repertorio monumentale degli illustri (santi, grandi artisti, umanisti, patrioti); oggi la scelta delle voci è ampliata. Vi sono accolti personaggi di vari settori della vita nazionale: donne, industriali, tecnici, sportivi, gente dello spettacolo o della politica.
Nel tre volumi usciti nel 2017 (88-89-90), ci sono, per esempio, artisti (da Salvator Rosa a Medardo Rosso), registi (Luca Ronconi o Roberto Rossellini), musicisti (Gioachino Rossini o Nino Rota), figure della politica, da Mauro Rostagno a Giuseppe Saragat. E ancora: Paolo Sarpi, Natalino Sapegno, Giovanni Sartori, Aligi Sassu, Salvatore Satta, accanto ad allenatori (Nereo Rocco) o industriali (Salmoiraghi, ottica). Tra le curiosità, il profilo di una bizzarra popolana, la “Sangiovannara”. Poiché l’opera è iniziata nel 1960 e procede alfabeticamente, non registra personaggi allora viventi. Per ovviare, almeno in parte a tali lacune, è stata aperta una pagina solo on-line: http://www.treccani.it/biografico/italiani_della_repubblica.html. Tra gli ultimi pubblicati, con grande eco mediatica, Lucio Battisti.
Negli ultimi anni di attività Raffaello si era imbarcato nella sua impresa antiquaria più ambiziosa: la ricostruzione grafica, in pianta, in alzato e in sezione, dei principali monumenti delle quattordici regioni di Roma antica. Un progetto grandioso, sostanzialmente sfumato alla morte dell’Urbinate (con grande rimpianto degli umanisti), basato sullo scrutinio delle fonti letterarie classiche, su rilevamenti topografici e su vere e proprie indagini archeologiche condotte ad hoc.
Il 1519 è anche la data più verosimile per la prima redazione della cosiddetta Lettera a Leone X sull’architettura classica, a opera di Raffaello con il supporto letterario di Baldassarre Castiglione (l’autografo di Baldassarre, già nell’Archivio privato dei conti Castiglioni, acquisito dallo Stato italiano, dal 2016 si conserva presso l’Archivio di Stato di Mantova). Al 1519-20 è databile, invece, una seconda redazione (Monaco di Baviera, Bayerische Staatsbibliothek, Cod. It. 37b; Thoenes, 1986; Di Teodoro, 2003a; Rowland, 1991 e 1994; per un inedito testimone della redazione di Mantova: Di Teodoro, 2015; Id., La lettera a Leone X (…): edizione critica, in corso di stampa; Shearman 2003, 1519/70, con una nuova datazione al 1516, dopo una precedente che ne fissava l’anno al 1513, Shearman, 1977, con molti errori di trascrizione, non banali, e con un testo – un ipotetico «first draft», Shearman, 2003, 1516/13 – che non è mai esistito nella forma in cui è dato).
La Lettera va collegata al progetto della ricostruzione grafica di Roma antica, affidato dal pontefice all’artista (per il quale si vedano: Nesselrath, 1986, e Denker Nesselrath 1993; Günther, 1988). L’umanista ferrarese Celio Calcagnini, a Roma dall’ottobre 1519, in una missiva a Jacob Ziegler esaltava Raffaello come «pictorum omnium princeps» (Calcagnini, 1544, p. 101), celebrando in particolare la sua ricostruzione di Roma antica.
In base al suo contenuto la Lettera a Leone X si può dividere in tre parti. Una prima, introduttiva, è inerente alle antichità («reliquie») di Roma e alla necessità di preservarle, una seconda costituisce un’ecfrasi storico-architettonica sull’esempio di quella presente nella Vita di Brunelleschi di Antonio di Tuccio Manetti, e una terza, decisamente più tecnica, che tratta del rilievo della città antica e degli edifici, per il tramite di uno strumento dotato di bussola magnetica, nonché della rappresentazione in pianta, alzato o «parete de fora» e sezione o «parete de dentro» di alcune architetture esemplari. In tal modo, per la prima volta, viene codificata una tecnica rappresentativa propria dell’architetto, quella delle proiezioni ortogonali. Non solo: i tre «modi» coincidono con la terna vitruviana ichnographia, orthographia, scaenographia (Vitr., I, 2, 2; Monaco di Baviera, Bayerische Staatsbibliothek, Cod. It. 37, c. 9r), glossa marginale in cui la scenografia è intesa quale sezione), e ben possono essere interpretati quali recupero del modo di disegnare degli antichi (Di Teodoro, 2008b; Id., Raffaello legge Vitruvio, in corso di stampa).
Nelle ultime opere di Raffaello si coglie sempre più prepotente l’ambizione di porsi su un piano di emulazione nei confronti dei risultati, da molti ritenuti inarrivabili, conseguiti dagli artisti antichi: le decorazioni dell’appartamento del cardinale Bibbiena, della loggia di Psiche alla Farnesina e delle logge Vaticane rivelarono agli occhi dei committenti, degli umanisti e dei letterati presenti a Roma gli esiti sorprendenti conseguiti da un artista moderno che, come un nuovo Apelle, aveva riscoperto i segreti del linguaggio figurativo classico.
Il 20 gennaio 1520 Alfonso I d’Este si lamentò aspramente per il comportamento irrispettoso di Raffaello, a proposito del dipinto bacchico tante volte promesso e mai consegnato per il «camerino d’alabastro»; il 20 marzo una lettera da Roma di Alfonso Paolucci al signore di Ferrara lo informava che l’artista aveva preparato per il duca «tre o quatro» studi di camini che non fanno fumo (abilità che Raffaello aveva dimostrato nella progettazione di quelli di villa Madama).
Secondo la testimonianza del diario di Marcantonio Michiel, Raffaello morì la notte tra il 6 e il 7 aprile, a causa di una febbre «continua e acuta, che già octo giorni l’assaltò», come si apprende da una sconfortata lettera di Paolucci al duca di Ferrara (Campori, 1863, p. 138): «Dolse la morte sua precipue alli litterati, per non haver potuto fornire la descrittione e pittura di Roma antiqua che ’l faceva, che era cosa bellissima (…). Morse a hore 3 di notte di Venerdì Santo venendo il Sabato, giorno della sua Natività» (M. Michiel, Diarii, in Cicogna, 1860, p. 410).
Il 7 aprile 1520 Raffaello venne sepolto nella tomba che aveva acquistato al Pantheon, facendo restaurare un’edicola di quell’antico monumento che era stato decisivo, fin dagli anni fiorentini, per la messa a punto del proprio linguaggio architettonico (Genovese, 2015): lo stesso giorno Pandolfo Pico scrisse a Isabella d’Este, informandola della morte di Raffaello, «lasciando questa corte in grandissima et universale mestitia per la perdita della speranza de grandissime cose che se expectavano da lui, quale havere bono honorato questa etade» (Campori, 1870, p. 308; Shearman, 2003, 1520/17). L’epitaffio in distici elegiaci, composto per l’artista dal Tebaldeo o da Bembo, esalta la forza creatrice di Raffaello, tanto che la Natura, mentre era in vita, temette di esser vinta da lui e quando morì temette, invece, di morire anch’essa («Ille hic est Raphael, timuit quo sospite vinci / rerum magna parens, et moriente mori»).
Il 12 aprile, in una lettera a Michelangelo, dove si ricorda la morte del «povero» Raffaello, «dil che credo vi habbi despiaciuto assai», Sebastiano del Piombo chiese un intervento presso il cardinale Giulio de’ Medici perché gli fosse affidata la decorazione della Sala di Costantino, «del che e’ garzoni de Raffaello [Giulio Romano e Giovan Francesco Penni] bravano molto e voleno depingerla a olio» (Pini – Milanesi, 1876, p. 143).
Nel maggio gli eredi di Raffaello al lavoro nella Sala di Costantino si offrirono di eseguire il dipinto lungamente atteso da Alfonso I d’Este, ma il duca di Ferrara comunicò che «non havendo noi potuto haver la pictura nostra di sua mano, non la volemo far fare in Roma» (Campori, 1863, p. 139).