Il Sole 24 Ore, 7 gennaio 2018
Spotify, la musica digitale vale 20 miliardi. Wall Street e il rischio bolla
È una musica tutta nuova quella che Spotify suonerà a Wall Street. Che non farà cantare le banche, ma ambisce ugualmente a diventare il concerto borsistico dell’anno. L’orchestra degli strumenti per la quotazione ha ormai preso posto: il colosso svedese dello streaming di canzoni, fondato nel 2006, rivendica fino 70 milioni di abbonati e 140 milioni di utenti in 61 paesi, il doppio del rivale più immediato, Apple Music. E ha presentato alla Sec, ottenuta l’autorizzazione formale a procedere, i documenti per un collocamento azionario iniziale che emarginerà intermediari e sottoscrittori. Ha lasciato filtrare che vuole procedere tra marzo e aprile con un direct listing, una vendita di azioni esistenti direttamente agli investitori al New York Stock Exchange. E ha cominciato a sciogliere i rimanenti nodi sulla sua situazione finanziaria – sul debito ma anche sui diritti alle canzoni – che potrebbero presentare ostacoli.
Per dare le dimensioni del “concerto” finanziario che si sta organizzando: è la prima azienda di simili dimensioni, oggi valutata 20 miliardi di dollari da 8,5 del 2015, a tentare il direct listing. Risparmiando così su commissioni ai sottoscrittori, al prezzo di maggior volatilità nelle quotazioni. Anzi, Spotify è di colpo anche il più serio contendente a Ipo – tradizionale o meno – dell’anno. Altri nomi in gioco, da Uber a Airbnb, potrebbero aspettare prima di mettere alla prova del mercato le valutazioni. L’azienda del chief executive Daniel Ek, per arrivare alla meta, ha scelto la strada oggi offerta dalla Sec di depositare documentazione confidenziale sul collocamento prima di dare conto in dettaglio delle proprie finanze. Ma la serietà del suo cammino verso la Borsa è stata testimoniata da un’operazione già portata a termine: la “ripulitura” di un passato accordo a base di debito. Due fondi, TPG e Dragoneer Investment Group, avevano capitanato un prestito da un miliardo a Spotify, che le aveva consentito di resistere a pressioni per accelerare l’Ipo. I due gruppi, è però emerso, hanno sul finire dell’anno scorso trasformato buona parte di quel debito in equity. E ceduto il pacchetto al gigante tecnologico cinese Tencent. Il guadagno è stato lauto per i fondi, che avrebbero convertito il debito in azioni a una valutazione della società da dieci miliardi e venduto a Tencent al doppio. Tencent da parte sua appare soddisfatta di una presenza in un’azienda “calda” come Spotify e ha anche effettuato uno swap di quote azionarie fino al 10 per cento. Soprattutto però l’operazione ha risolto un rebus capace di scatenare una disputa tra i protagonisti, allungando ombre sulla quotazione e gli esami dei regulator: il direct listing avrebbe potuto tecnicamente negare a detentori di debito convertibile il diritto a una trasformazione in azioni.
Ostacoli per Spotify tuttavia ancora restano. E potrebbero essere battaglie di business più che di ingegneria finanziaria. La società, che ha una biblioteca di 30 milioni di brani, è stata denunciata da Wixen Music per 1,6 miliardi di danni, con l’accusa di violazione del copyright su migliaia di canzoni da Tom Petty a Neil Young. Altri tre ricorsi fanno lievitare i danni a due miliardi. Lo streaming musicale è diventato essenziale per il settore, pari al 57% degli ascolti nel 2017. Ma le case discografiche temono il potere di gruppi quali Spotify. L’azienda lavora a un accordo prima dell’Ipo, sulla scorta di compromessi firmati in passato. Non svanirà, invece, la concorrenza nello streaming: Amazon, Google e Facebook, oltre ad Apple, stanno moltiplicando i loro “concerti”.