Il Sole 24 Ore, 7 gennaio 2018
La diplomazia secondo Macron d’Arabia
Emmanuel Macron dorme poco e viaggia molto. Le sue mete preferite o obbligate sono il Medio Oriente e il Maghreb, dove negli ultimi mesi si riscontra uno spettacolare attivismo dell’Eliseo, degno del più agitato e vulcanico Nicolas Sarkozy. Parigi è tornata a essere il crocevia della politica estera europea nell’area più destabilizzata e destabilizzante del pianeta. Il paragone Macron-Sarkozy attiene per fortuna più allo stile – impetuoso, sincopato – che non alla sostanza. Da italiani non vogliamo e possiamo dimenticare che cosa è successo in Libia dal 2011 in avanti, mentre tutti ci siamo (giustamente) dimenticati del fumoso progetto di Unione per il Mediterraneo, lanciato in pompa magna nel luglio 2008 e rimasto a prendere polvere nelle scrivanie e ora negli archivi delle cancellerie di mezza Europa.
Le cinque mosse chiave
Come per il patriottismo economico, però, dobbiamo rassegnarci all’ennesimo riflesso condizionato della Francia. Da quando si è insediato all’Eliseo, e senza precedenti esperienze in politica estera o legami particolari con l’area, Macron si è subito impadronito del dossier mediorientale, solo in parte approfittando del vuoto lasciato dal Regno Unito e dalla Germania. Un abbozzo di strategia che si può riassumere nelle cinque mosse finora più importanti.
In ordine cronologico, la prima è stata in luglio: l’organizzazione dell’incontro, in Francia, tra i due arcinemici libici, il premier di Tripoli Fayez al-Sarraj, e il comandante dell’Esercito Nazionale Libico Khalifa Haftar con conseguente stretta di mano e promessa di un cessate il fuoco. La seconda è stata la missione improvvisa in Arabia Saudita, dove si è recato in novembre per incontrare il principe ereditario Mohammed Bin Salman che nel frattempo aveva “trattenuto” a Riad il premier libanese Saad Hariri, da lì costretto ad annunciare le sue dimissioni perché troppo accondiscendente nei confronti della componente sciita del suo governo, rappresentata da Hezbollah. In quell’occasione Macron invita ufficialmente Hariri a Parigi. L’operazione ha successo e – terza mossa – il premier libanese può recarsi in Francia il 18 novembre assieme alla famiglia, dove viene accolto all’Eliseo da Macron e dalla moglie Brigitte: dopo tre giorni Hariri rientra a Beirut e ritira le dimissioni.
La terza e la quarta mossa si giocano rispettivamente ad Abidjan e a Doha. Il 29 novembre il presidente della Repubblica francese annuncia al vertice euro-africano in Costa d’Avorio la creazione di una task force internazionale per evacuare dalla Libia i migranti vittime di una vera e propria tratta da parte dei trafficanti. Pochi giorni dopo, in Qatar, firma accordi economici per 12 miliardi di euro, dei quali 1,1 miliardi per la vendita di caccia Rafale: nell’occasione ribadisce di non volersi immischiare nella diatriba scoppiata mesi fa tra il Qatar e gli altri Paesi del Golfo, Arabia Saudita in testa, che accusano l’emirato di aver fomentato e finanziato l’estremismo islamico.
«Il successo più importante ottenuto finora è senza dubbio la soluzione della crisi libanese – dice Dorothée Schmid, ricercatrice dell’Istituto francese per le relazioni internazionali (Ifri) – perché la destabilizzazione del Paese, che si regge su equilibri politico-istituzionali precari e dove si contrappongono tutte le grandi forze del mondo arabo-musulmano, avrebbe innescato una reazione a catena dalle conseguenze imprevedibili». In più, aggiunge la specialista di Medio Oriente, recandosi a Riad per risolvere “il caso Hariri”, Macron «ha offerto alla impacciata diplomazia saudita una via d’uscita dal vicolo cieco nel quale si era cacciata». Il Libano è la chiave d’ingresso dell’Eliseo in Medio Oriente. È un Paese che Parigi ha contribuito a plasmare essendo stato un suo protettorato dal 1920 al 1944 e con il quale mantiene forti legami economici, politici e culturali. Oltre ad avere una propria base militare, la Francia dispone di un contingente di 900 soldati sotto la bandiera dell’Onu.Il Libano, infine,accoglie oltre un milione di rifugiati su una popolazione complessiva di 6 milioni: una nuova guerra avrebbe sicuramente innescato un nuovo flusso di migranti nel Mediterraneo Orientale.
Il caso Hariri
Ci sono poi i legami personali, quelli che la famiglia Hariri intrattiene da decenni con Parigi. Il padre di Saad, Rafik, anch’egli primo ministro, assassinato nel 2005, era amico personale di Jacques Chirac. L’ex presidente francese e la moglie Bernadette hanno vissuto dal 2007 fino a pochi mesi fa in una grande casa della capitale francese messa a disposizione proprio dalla famiglia Hariri. Macron ha cercato di ripercorrere un po’ di questa storia accogliendo Saad e famiglia a Parigi con un caloroso tweet e la formula di benvenuto in arabo: «Ahlan wa sahlan! Bienvenue à Paris @saadhariri».
Dietro la cordialità e l’intento di presentarsi come una forza stabilizzatrice in Medio Oriente, l’azione di Macron riguarda altri aspetti. Saad Hariri ha anche un passaporto saudita e ha ereditato dal padre il colosso delle costruzioni Saudi Oger, fallito nell’estate 2017 dopo che bin Salman aveva tagliato pesantamente i sussidi pubblici per finanziare le grandi opere infrastrutturali. Il gruppo ha contratto debiti per 3,5 miliardi di dollari, ma vanta anche crediti per 8 miliardi nei confronti di Riad per opere già realizzate. Nella crisi societaria sono state lasciate senza lavoro migliaia di persone e tra queste 250 francesi ai quali Saudi Oger deve 20 milioni di euro di arretrati in stipendi e contributi. Sarà sicuramente un tema, tra i tanti, da discutere in occasione della visita a Parigi, prevista tra febbraio e marzo, del principe ereditario. Secondo Michel Duclos, ex diplomatico e consigliere speciale per la geopolitica presso l’Istituto Montaigne, nonostante l’attivismo è forse prematuro parlare di una nuova strategia francese: «Parlare con tutti – spiega – è una regola praticata dai predecessori di Macron. Se poi confrontiamo l’azione politica nell’area con certe sue dichiarazioni di quando era candidato, vediamo allora che la ridefinizione dei rapporti con alcuni Paesi del Golfo non è andata così lontano. Dopotutto quando si è recato a Doha ha firmato un consistente pacchetto di accordi economici, nel solco della più consolidata tradizione francese».
L’elemento di continuità, almeno con il predecessore François Hollande, è rappresentato dal ministro degli Esteri, il socialista Jean-Yves Le Drian, che nella precedente legislatura occupava l’altra poltrona strategica, quella della Difesa, che rappresenta uno dei due cosiddetti “domini riservati” dell’Eliseo. Durante l’opaco mandato di Hollande la Francia è diventata nel 2016 il secondo esportatore di armi al mondo. E la geografia delle commesse militari ci dice che Arabia Saudita, Qatar ed Egitto sono rispettivamente il secondo, terzo e quarto mercato di destinazione dei sistemi di difesa dell’industria francese.
«En même temps»
La presenza di Le Drian, considerato uno dei migliori ministri del team di governo, con rapporti consolidati con molti leader mediorientali, è la testimonianza di quanto il solco della politica estera francese sia in buona parte già tracciato e di quanto siano difficili esplorare nuovi percorsi e modalità. La variabile Macron è secondo gli esperti nell’approccio: freddo, razionale, in un’area del pianeta dove la razionalità non ha quasi dimora. E in un’ambivalenza di fondo, tipica del suo stile presidenziale, e che gli permette di dire e fare una cosa ma anche il suo esatto contrario, «en même temps», allo stesso tempo, come ormai dice sempre nel suo riconosciutissimo tic linguistico, quasi un intercalare. Un esercizio evidente sull’Iran, dove ha difeso l’accordo sul nucleare dagli strali di Trump, ma ha anche detto mesi fa che Teheran non poteva «essere un partner» per Parigi. Un’ambivalenza che gli ha permesso di non essere preso troppo in contropiede dalle recenti proteste iraniane contro il regime.