il Fatto Quotidiano, 7 gennaio 2018
Spelacchio e Spelacchia
Passata l’Epifania, si chiude anche l’èra di “Spelacchio”, il mestissimo abete rosso di 20 metri giunto a Roma in piazza Venezia dalla Val di Fiemme già mezzo scheletrito a causa di una tecnica di trasporto sbagliata e poi vistosamente peggiorato ogni giorno, fino a diventare l’albero di Natale più sfigato del mondo. Ora però il simbolo vivente (si fa per dire) dell’eterna crisi romana pare destinato, anziché a una frettolosa sepoltura, a un radioso futuro. Perché, incredibile a dirsi, tutti lo vogliono, manco fosse una star o un capolavoro. Se lo contendono fior di musei per farne un’installazione permanente. La Val di Fiemme l’ha richiesto indietro per trasformarlo in una casetta in legno da donare a un ente benefico del Comune di Roma (che già una volta ne ha strapagato il trasporto). E piovono proposte di aziende private che vorrebbero ricavarne oggetti, souvenir in legno e reliquie griffati “Spelacchio”. Intanto prosegue il pellegrinaggio di romani e turisti attorno all’albero per farsi un selfie o lasciare bigliettini e disegni affettuosi quanto surreali: “Resisti”, “Non mollare”, “Sei uno di noi”, “Ti vogliamo bene”. La sindaca Virginia Raggi, crocefissa a Spelacchio come l’anno scorso all’altro abete un po’ meno sgarrupato, ma più spoglio e sbilenco, ribattezzato dalla vox web “Povero Tristo”, voleva far causa per i costi eccessivi e la pessima manutenzione: ma ora le sarà difficile provare in tribunale il danno economico e soprattutto d’immagine subito dalla città per l’abete superstar.
Così Spelacchio è diventato un’allegoria dei 5Stelle al governo di Roma. La versione arborea della Raggi. Lei tutta pelle, naso, occhi, orecchi e ossa; lui tutto rami e pochissimo verde mal camuffato sotto un surplus di addobbi luminosi. Spelacchia travolta al debutto da una serie impressionante di errori, gaffe, sventure e linciaggi mediatici, da cui solo negli ultimi mesi si sta faticosamente rialzando con una popolarità sproporzionata ai risultati ottenuti ma non agli attacchi subiti; Spelacchio perseguitato fin dall’inizio dalla malasorte e da centinaia di titoli sui giornali (non solo italiani: perfino sul Guardian, sul New York Times, sulla Süddeutsche Zeitung e sull’agenzia di stampa ghanese) che lo davano per “morto” (non sapendo che lo sono tutti gli alberi segati e trasportati altrove) e risorto in extremis con una notorietà poco meritata, ma comprensibile. I metri quadri di carta stampata e le ore di tg dedicati a Spelacchio nell’ultimo mese non temono confronti con quelli riservati a fatti infinitamente più gravi.
Come le varie guerre sparse per il mondo, o la requisitoria dei pm sulla trattativa Stato-mafia, o i rincari di gas e luce (+5%) e dei pedaggi autostradali (+2,7%). Quando il troppo stroppia, la gente avverte puzza di bruciato. E i linciaggi fondati sul nulla, tipo “Spelacchio uguale Raggi, dunque botte da orbi”, sortiscono l’effetto opposto: viva Spelacchio e viva la Raggi. Applausi a prescindere, come i fischi. Ieri abbiamo mostrato che succede se il sindaco più importante del Pd (il milanese Sala) e il sindaco più importante dei 5Stelle (la romana Raggi), imputati più o meno per gli stessi reati (l’uno per falso e abuso, l’altra per falso) chiedono lo stesso giudizio immediato, saltando l’udienza preliminare dinanzi al Gup. Per Sala, silenzio di tomba: l’immediato è la prova che è innocente come un giglio di campo. Per la Raggi, scandalo nazionale e tre giorni di aperture di giornali e tg: l’immediato è la prova che è colpevole marcia. Ancora ieri il Messaggero – che sull’immediato di Sala non ha scritto una riga – sbatteva l’immediato della Raggi in prima pagina in altre due interne. Il tutto per una scelta processuale di nessun interesse, che attiene solo al calendario delle udienze, peraltro rapidissimo in entrambi i casi, a indagini appena concluse e senza le udienze preliminari (che in certi casi durano anche mesi e mesi).
Su Repubblica, l’ennesimo pezzo che accusa la Raggi di tradire “la verità dei fatti” (non si sa bene quali) e dà per scontato che sapesse delle interferenze di Raffaele Marra nella nomina del fratello Renato (anche se dalle carte emerge il contrario). Con tanti saluti proprio alla verità dei fatti. La Raggi – scrive Repubblica – “è imputata di falso ideologico nel procedimento di nomina di Renato Marra” (balle: lo è in quello per la sua dichiarazione all’Anticorruzione sulla nomina già avvenuta e poi revocata); e Di Maio “si era fatto garante di quel singolare connubio” fra la Raggi e Marra (balle: dalle chat, manipolate col taglia e cuci da Repubblica, Corriere, Messaggero e Stampa, risulta che Di Maio chiese alla Raggi di allontanare Marra da vicecapo di gabinetto). Insomma, più che un processo, sarebbe un’“ordalia”, con una Raggi “disperata” e “braccata dal fantasma chiamato Marra” che dovrà affrontare “una scelta diabolica” e “scommette sull’effetto confusione”, costringendo i magistrati “a giudicare la stessa vicenda” (falso: Marra risponde di abuso per la nomina, la Raggi di falso per una dichiarazione successiva) “in due distinti processi” (ma questo l’ha deciso il gup, la Raggi l’ha solo chiesto). Parole che si potrebbero ripetere tali e quali per l’identica scelta di Sala, giudicato separatamente dagli altri imputati dello scandalo Expo. Ma tutto questo Repubblica non lo sa, o non lo scrive. Forse perché qui sono in ballo non le frasi di una sindaca sulla nomina del capo-ufficio Turismo, ma gli appalti truccati e le carte retrodatate di Expo, con danni milionari per la collettività: quasi 3 milioni di euro buttati solo per gli alberi, costati 1,6 milioni alla ditta e pagati 4,3 (il triplo) da Sala, cioè da noi. Spelacchio, al confronto, è un dilettante.