Corriere della Sera, 5 gennaio 2018
In morte di Aharon Appelfeld
Quando lo incontravi nel suo appartamento piccolo e tappezzato di libri alla periferia di Gerusalemme era inevitabile parlare della sua infanzia nei boschi per fuggire ai nazisti. La storia di un bambino che nell’estate del 1941 a nove anni sente la madre dirgli: «Scappa e non voltarti indietro, nessuno deve sapere che sei ebreo». Lei violentata e uccisa subito dopo, forse da un branco di giovinastri del villaggio ben contenti di saccheggiare e dare alle fiamme la «casa degli ebrei» prima dell’arrivo delle pattuglie tedesche. Poi lui catturato con il padre, spedito in un campo di concentramento, da dove fugge solo per vivere tre anni alla macchia con «bande di ladri di cavalli, contrabbandieri, prostitute, streghe e falsari» nelle foreste tra Ucraina e Romania, prima di essere adottato come cuoco da alcune unità dell’Armata Rossa. Lui, Aharon Appelfeld, scomparso ieri a Gerusalemme a 85 anni, parlava lento, ripeteva vicende raccontate in migliaia d’occasioni, nelle sue decine di libri, ma in ognuna era come se dovesse cercare nella memoria un dettaglio, un particolare nuovo. E lo si rimaneva ad ascoltare interdetti, stupiti dall’enormità di quel racconto. Anche se la storia era già nota, era impossibile non restare irretiti per la genuina semplicità con cui quella tragedia epocale riemergeva attraverso le memorie di un testimone-vittima che l’aveva subita da bambino. Così l’Olocausto prendeva forma, tornava attuale, diventava il cuore del lavoro dello scrittore.
Sì l’Olocausto, anche dopo gli scandali delle biografie inventate da false vittime della persecuzione nazista pur di «fare cassa», anche dopo che la narrativa della Shoah era come venuta a scadere per il suo proliferare ripetitivo a partire da una quindicina d’anni fa, imbattersi a quattr’occhi con Appelfeld è sempre stata un’esperienza unica. Punto focale del suo discorso era l’importanza della memoria. «Più o meno quattordicenne alla fine della guerra, nell’estate del 1945, riuscii a raggiungere un campo di raccolta per gli ebrei scampati allo sterminio che cercavano di emigrare da Napoli verso quello che sarebbe diventato lo Stato d’Israele. Una delle convinzioni più diffuse era che si dovessero dimenticare al più presto gli orrori subiti in Europa per costruire esistenze totalmente nuove nella nostra patria del futuro. Ma io già allora mi ripetevo che ero sopravvissuto grazie alle memorie felici della mia famiglia, l’amore di mia madre, la casa delle vacanze dei nonni sui Carpazi. Non volevo dimenticarli. Avevo assistito ad episodi talmente crudeli che solo la consapevolezza per cui esisteva comunque la possibilità di vivere in modo diverso mi permetteva di superare il dolore del presente», ci aveva raccontato durante un’intervista in occasione della pubblicazione del suo Badenheim 1939.
Scrivere era diventato la risposta più naturale a quest’esigenza interiore, di ricordare e perpetuare. Scrivere per sopravvivere. Come ha spesso notato la critica israeliana, inclusi due autori del peso di Amos Oz e David Grossman, le opere di Appelfeld si sono quasi sempre ispirate alla diaspora askenazita, al mondo scomparso delle comunità ebraiche dell’Est europeo. L’ex cuoco dell’Armata Rossa imparò l’ebraico, studiò all’Università di Gerusalemme con professori del rango di Gershom Scholem e Martin Buber, però non dimenticò l’Yiddish della sua giovinezza, come neppure il russo o il rumeno. Parlava rumeno con la prostituta che nell’inverno del 1942 l’aveva adottato nella sua baracca tra i pini. E di lei diceva: «Forse, se avesse saputo che ero ebreo, mi avrebbe abbandonato. Ma anche tra i criminali c’è chi fa del bene».