Corriere della Sera, 5 gennaio 2018
Le sorelle Brontë e la modella: una strana polemica
Lily Cole è una giovane donna – ha compiuto trent’anni una settimana fa – laureata in Storia dell’arte al King’s College di Cambridge con il massimo dei voti (mentre lavorava: studentessa part-time), e la sua intelligenza è evidente a chiunque abbia mai scambiato con lei anche poche parole: poi, di mestiere, ha scelto di fare la modella (per molti dei marchi più famosi dell’industria del lusso; è stata anche sulla copertina di Vogue ) e l’attrice (per autori come Terry Gilliam e Roland Joffé). Ma è quel tipo di personaggio famoso – ce ne sono: il premio Oscar Marisa Tomei parla di Tennessee Williams, da lei studiato e portato in scena a teatro, con la competenza e la precisione di una professoressa universitaria – con il quale l’intervista su un argomento leggero rischia di degenerare in una conversazione, come è successo per esempio con il Corriere, su un altro molto diverso (in quel caso, Cole aveva parlato più volentieri dell’opera più complessa di Ibsen, Brand, invece che di moda come avrebbe dovuto).
Per questo appare quantomeno bizzarra nei contenuti – e sicuramente spiacevole, per i toni – la polemica scatenata da uno studioso delle sorelle Brontë per la decisione di nominare Cole partner creativa del bicentenario della nascita di Emily, l’autrice di Cime Tempestose. Secondo Nick Holland – biografo di Anne, la sorella più enigmatica – la Brontë Society ha commesso un errore, e per questo si è dimesso, per protestare contro «una decisione vergognosa» e «orrida farsa». Gli pare una indebita concessione al culto mediatico per i personaggi famosi, e con sarcasmo ha suggerito alla Brontë Society, per i prossimi anniversari, di contattare il comico James Corden e la cantante Rita Ora. Holland è contrario alle celebrità, alle presentazioni multimediali nei musei. Proprio sul museo dedicato alle sorelle e curato dalla Brontë Society, dice che «è composto da eroi, ma come capitò durante la Prima guerra mondiale sono eroi comandati da asini».
La questione di fondo, ovvia, va anche al di là delle qualifiche personali di Holland. È uno scrittore di saggistica, non un docente universitario: sono solo gli accademici ad avere i titoli per parlare di autori straordinariamente grandi e popolari? Qual è il ruolo delle istituzioni culturali: custodire la grandezza del passato o cercare di tradurla in modi indubbiamente più adatti ai media, specialmente a quelli nuovi?
Il problema qui non è quello, più semplice, del ritratto di Jane Austen ritoccato digitalmente prima di metterla sulla nuova banconota per renderla più carina (lei non era così: ma spiritosa com’era magari sarebbe stata la prima a sorridere di questo goffo «makeover», chissà). Quelle poste da Holland sono tutte domande legittime e degne di una discussione seria. Una «supermodella», come la definisce Holland (si potrebbe altrettanto accuratamente definirla «dottoressa Cole», questione di punti di vista) può essere ambasciatrice di Emily Brontë nel 2018? O sarebbe stato più adatto un saggista, un uomo non famoso, magari proprio Holland?
Holland fa una cosa che gli storici generalmente si guardano bene dal tentare, parla a nome di Charlotte Brontë evocandola e dicendo che l’autrice di Jane Eyre sarebbe furiosa, oggi, se fosse qui. Più modestamente, impressiona come Charlotte, in uno dei passaggi più belli di Jane Eyre, ha scritto che «la vita mi pare troppo breve per passarla nel risentimento, o nel conteggio dei torti subiti». E con la stessa modestia, senza tentare sedute spiritiche, si può semplicemente constatare come, in vita, le sorelle Brontë dovettero firmarsi con pseudonimi maschili: Charlotte, Emily e Anne diventarono in tipografia Currer, Ellis, e Acton Bell. Emily – che morì a trent’anni, l’età di Lily Cole oggi considerata «troppo giovane» per rappresentarla – firmò Cime Tempestose con lo pseudonimo di Ellis Bell. Le donne non venivano prese abbastanza sul serio dagli intellettuali maschi, a quei tempi.