il Giornale, 5 gennaio 2018
Arendt-Anders, l’amore va preso con filosofia
Il Novecento tedesco ci sorprende sempre con nuovi documenti, testi inediti o ancora poco conosciuti, come l’epistolario intercorso tra due dei principali outsiders della filosofia dell’epoca: Hannah Arendt e Günther Anders.
Appartenenti alla borghesia ebraico-tedesca, si erano conosciuti nel ’25 in un seminario di Heidegger a Marburgo, allora con Friburgo il principale centro della filosofia tedesca (e non solo). Hannah aveva intrecciato una pericolosa relazione clandestina con il docente: un rapporto tanto fecondo quanto infelice che l’avrebbe segnata per tutta la vita. I giovani si rividero casualmente a un ballo in maschera nella Berlino dei roaring twenties, nel 1929. Più di 50 anni dopo, Anders rievocò l’incontro: «Quando vidi Hannah al ballo capii che amare sarebbe quell’atto, attraverso cui qualcosa di a posteriori, l’incontro casuale con l’altro, si trasformerebbe nell’a priori della propria vita. Ovviamente questa bella frase non ha trovato conferma». Si sposarono immediatamente e all’inizio era un rapporto d’intensa simbiosi intellettuale. Arendt stava lavorando alla sua tesi di dottorato su Agostino, Anders, dopo il dottorato con Husserl, si preparava alla carriera accademica (che non si realizzò per l’ostilità di Adorno).
Insieme scrissero un denso contributo di ermeneutica filosofica sulle Elegie di Duino di Rilke (poeta su cui Heidegger scrisse un saggio decisivo). La collaborazione proseguì con due recensioni parallele all’opera principale di Karl Mannheim su Ideologia e utopia, in difesa del primato della filosofia sulla sociologia (questi tre testi sono presenti nel volume). Anders, cugino di Walter Benjamin, era introdotto negli ambienti dell’intellettualità ebraico-tedesca berlinese, ma poi i due si trasferirono a Francoforte, dove era già attivo il mitico «Istituto di sociologia» di Horkheimer e di Adorno, ma proprio con costui si ebbero i primi scontri, che proseguirono negli anni e che svelano – come testimonia il carteggio – quanto diverse fossero le posizioni (con radicate idiosincrasie) fra gli intellettuali del tempo.
Intanto il grande amore ebbe breve durata; già dopo un paio d’anni, tra Hannah e Günther sopravvenne l’allontanamento sia sentimentale sia geografico (il divorzio avvenne nel ’37), senza che venisse meno una preziosa intesa umana, confermata dall’epistolario tra i due, Scrivimi qualcosa di te. Lettere e documenti (Carocci, pagg. 194, euro 24, ottimamente tradotto da Nicola Zippel). Molte lettere sono andate perdute. Ciò che resta è la punta di un iceberg che tuttavia riesce a fornirci importanti informazioni su quel tragico periodo dell’emigrazione, quando appunto Anders, che si era trasferito per tempo negli Usa, aiutò Hannah, il suo nuovo marito, Heinrich Blücher, e la madre di lei a emigrare. Il 23 maggio 1941 la loro odissea termina con un liberatorio telegramma da New York di Hannah: «Siamo salvi». Il primo gruppo di lettere è di Hannah e ricostruisce gli anni dell’emigrazione, del dramma della fuga e delle difficoltà dell’inserimento. Günther, che in Germania era un vivace giornalista culturale (aveva dovuto inventarsi uno pseudonimo, Anders, perché gli articoli con il suo nome, Stern, avevano inflazionato il giornale su cui scriveva), era ridotto a uomo delle pulizie. E come molti altri emigranti (tra cui il suo amico Brecht) disperava di imparare l’inglese, a differenza di Hannah che in tempi relativamente brevi era riuscita a scrivere i suoi testi in quella lingua. Tra i due vi era solidarietà, insieme a una sostanziale estraneità: «Ho la sensazione – lui scrive nel ’59 – che in realtà ci troviamo on two shores, none of which can be seen or understood from the other one». Nel ’55, sempre lui, aveva osservato la loro differenza in una frase amara: «Non siamo d’accordo probabilmente su nulla, tranne che non ci si deve dedicare a nessuno».
Tra i due, Anders era pessimista e arrabbiato e trovò nel movimento contro l’atomica la conferma alla sua filosofia, riassunta nel titolo della sua opera principale, L’uomo antiquato, che molto deve alle considerazioni di Heidegger sulla tecnica. La tesi di fondo è l’inadeguatezza dell’uomo nei confronti dei dispositivi del progresso tecnico-scientifico. Ricorre l’icona di Prometeo, cui sarebbe più opportuno aggiungere quella dell’«apprendista stregone», distrutto dalle sue stesse invenzioni. La posizione di Arendt è diversa: il suo tema è quello del totalitarismo e segnatamente quello dell’antisemitismo, culminato nel saggio sulla Banalità del male a margine del processo contro Eichmann, da lei seguito come inviata del New Yorker. Il testo divenne l’ultimo motivo di scontro tra i due. Ciò che in parte li teneva uniti era la memoria di Walter Benjamin, che proprio ad Hannah aveva affidato le sue Tesi sulla filosofia della storia, con l’esortazione di consegnarle ad Adorno il quale, una volta avutele, non si decideva a pubblicarle, accusando il filosofo berlinese di aver aderito all’impostazione «volgar marxista» del suo amico Brecht. A Benjamin sono dedicate due struggenti poesie di Hannah e di Günther, proposte nel volume, come pure una breve, illuminante riflessione di Anders sulla specificità benjaminiana di considerare il processo di autenticità linguistica il nucleo della filosofia.
L’epistolario è in realtà un grande frammento di un prezioso mosaico, in gran parte ormai perso per sempre, su quella straordinaria epoca della cultura universale che per l’ultima volta parlava ancora in tedesco. Il paradosso è che i maggiori pensatori, artisti e scienziati di quel tempo erano pensatori, artisti, scienziati ebrei e tedeschi. Era il «mondo di ieri» rievocato da Zweig. Tutto distrutto da Hitler.