il Giornale, 5 gennaio 2018
A casa Dickens per scoprire come è nato Mr. Scrooge
Alle feste di fine anno Charles Dickens non è mai assente. Nella sua Inghilterra e nel resto del mondo i suoi racconti e romanzi invitano ogni volta a una rilettura, mentre il suo Canto di Natale – 250 versioni fra cinematografiche e teatrali negli ultimi 70 anni – è ormai diventato un’istituzione multimediale. Composta nel 1843, facilmente adattabile e sempre puntuale, la ballata natalizia allegorica e drammatica dell’avido Scrooge perseguitato e ammonito dagli spiriti del Natale passato, presente e futuro fino al ravvedimento finale viene sempre riproposta in nuovi allestimenti. In questi giorni, alla fantasiosa versione tradizionale in scena a Londra all’Old Vic, che con brillante sfarzo scenico cerca di spiegare la misantropia del vecchio avaro, si contrappone a Stratford-upon-Avon per la Royal Shakespeare Company una lettura più politica e meno benigna a cura di David Edgar, che sottolinea l’ira profonda e il sarcasmo di Dickens per le ingiustizie sociali del suo secolo, mettendo in scena lo scrittore stesso e il suo primo biografo e amico John Forster, intrecciandoli alla favola in un commento che assume toni brechtiani.
Non da meno è in questi giorni il Charles Dickens Museum di Londra, che approfitta della stagione festiva per rilanciare con la mostra Ghost of an Idea: Unwrappig A Christmas Carol (fino al 25 febbraio), con i costumi del recente film L’uomo che inventò il Natale e attori che nelle storiche stanze ne declamano i testi, la sua sede di Doughty Street nel quartiere di Bloomsbury. Un vero tesoro per chi voglia immergersi nel mondo dello scrittore e penetrare i contrasti dell’uomo che ancora oggi, a dispetto di numerose biografie, conserva intatto il mistero di una sensibilità inafferrabile.
Qui, con manoscritti originali, fotografie e oggetti personali, troviamo esposti i primi schizzi di Ebenezer Scrooge, i preziosi disegni colorati di John Leech, vignettista di Punch, per la prima edizione della Christmas Carol, raramente pubblicati e ancor meno esibiti perché molto delicati. Il museo conserva la più vasta raccolta di materiale relativo all’opera e alla vita di Dickens, importanti dipinti, edizioni rare delle sue opere, mobili a lui cari come la sua poltrona e lo scrittoio nello studio al primo piano dove completò Il circolo Pickwick e scrisse Oliver Twist e Nicholas Nickleby. E molte delle 14mila lettere scampate alla distruzione dell’autore, ossessivamente attento a non lasciare indizi che potessero nuocere alla sua immagine. Forse il pezzo più pregiato in mostra è il ritratto incompiuto dell’autore, Il sogno di Dickens, dipinto da R.W. Buss, già illustratore del Circolo Pickwick. Nel quadro vediamo lo scrittore seduto nello studio, circondato da molti dei suoi personaggi e in una nuvola l’immagine di Mary Hogarth, la cognata da lui molto amata, morta a 17 anni fra le sue braccia e mai dimenticata.
In stile georgiano, su quattro piani, recentemente restaurata, 48 Doughty Street è la sola superstite delle residenze londinesi dello scrittore, la casa che segnò il passaggio dall’oscurità alla fama. Dickens vi si trasferì nel 1837 con la moglie Catherine e i primi due dei dieci figli e vi restò fino al 1839, quando traslocò in una residenza più grande. A quel tempo lo scrittore non era né ricco né famoso, ma noto soltanto per alcuni scritti firmati con lo pseudonimo cockney di Boz. In questa casa scrisse i romanzi che firmò con il suo vero nome e al tempo stesso costruì il suo io, il personaggio che volle essere. In ogni stanza si avverte la sua presenza, ogni oggetto testimonia di una vita raccolta e intensa: la sala da pranzo con la tavola allestita per gli ospiti che molto spesso intratteneva; la camera da letto con il letto a baldacchino; le cucine tipiche del tempo; la soffitta dove lo scrittore conservava una finestrella con le sbarre, che ancora vediamo, dell’ormai demolita prigione di Marshalsea, dove suo padre scontò una condanna per debiti, costringendo il figlio dodicenne ad abbandonare la scuola e a lavorare per alcuni mesi in una fabbrica di lucido per scarpe. Un’esperienza tenuta a lungo nascosta, ma che lo perseguitò sempre, acuendo la sua sensibilità per le diseguaglianze sociali.
Ma sono i manoscritti originai il premio per chi visita questa dimora, poiché permettono di rivivere i momenti cruciali della vita di un uomo sfuggente. Dell’epistolario commuove la lettera scritta a un amico per la morte della cognata, tanto amata e idealizzata, come altre donne dopo di lei, e spesso trasferita nei personaggi femminili dei suoi romanzi. Irritazione e delusione trasmettono le lettere risalenti al primo viaggio negli Stati Uniti del 1842, per le penose condizioni sociali che vi trova e che, quando le pubblicò alla fine dell’anno con il titolo American Notes, gli alienarono le simpatie dei lettori americani. Troviamo anche stralci degli scritti dal soggiorno in Italia nel 1844-45 quando, già sostenitore, con Carlyle e altri intellettuali inglesi, di Mazzini in esilio, decide di affrontare a modo suo l’Italia, concentrandosi non tanto sulle bellezze del Paese, quanto sulla gente. Prende lezioni di italiano dall’esule Antonio Gallenga, si stabilisce a Genova con la moglie e viaggia da Verona a Venezia, da Ferrara a Roma, e poi a Napoli, sempre impressionato dal continuo sovrapporsi di passato e presente. Sono pagine complesse che pubblicherà nel 1846 con il titolo Pictures of Italy. Pur subendo il fascino estetico del Paese, la sua attenzione ritorna sempre sul decadimento e sulla povertà che vede e sulla persistenza di una sotterranea crudeltà politica che egli teme sia latente nel suo popolo.