la Repubblica, 5 gennaio 2018
Cuba senza Castro
Quest’anno Cuba si prepara al primo, profondo, cambio generazionale al potere dopo sessant’anni di rivoluzione. Con l’uscita di Raúl, che dieci anni fa prese il posto di suo fratello Fidel alla guida del governo dell’isola, garantendo una successione leggera nella continuità dinastica, non ci sarà più un Castro presidente. Ma soprattutto è ormai inevitabile, per ragioni biologiche, il ricambio di tutta la leadership degli ultimi barbudos della Sierra Maestra, quelli che fecero la guerriglia, che ancora oggi si chiamano “generales con la mochila” (generali con il sacco in spalla), e che sono il nucleo duro delle Forze armate intorno a Raúl. Dopo il fratello di Fidel, gli uomini più potenti di Cuba oggi sono due vicepresidenti ultra ottantenni, i generali José Ramón Machado Ventura (87 anni) e Ramiro Valdés (85). Insieme agli ultimi due generali “con mochila”, il ministro delle Forze armate Leopoldo Cintra Frías (76 anni) e il suo vice Álvaro López Miera (74).
L’addio alla presidenza di Raúl era previsto per la fine di febbraio ma all’ultimo momento è slittato di altri due mesi fino ad aprile. La scusa ufficiale sono i danni provocati alle infrastrutture dell’isola dal passaggio dell’uragano “Irma” che ha colpito la zona Nordest di Cuba alla metà di settembre. Ma le vere ragioni del breve rinvio nel passaggio dei poteri sono altre. E riguardano probabilmente un dissenso all’interno del gruppo dirigente sui nuovi equilibri. A sostituire alla presidenza Raúl, che rimarrà comunque ancora per un po’ primo segretario del partito comunista cubano, dovrebbe essere l’attuale primo vicepresidente Miguel Díaz-Canel (57 anni). Un burocrate socialista che ha fatto tutta la sua carriera nel partito e garantisce, in un proclamato immobilismo, la continuità del regime. I suoi rivali più forti sono – fino a un annuncio ufficiale che ancora non c’è stato – sul fronte dei civili, il ministro degli Esteri Bruno Rodríguez; e su quello dei militari, il viceministro delle Forze armate Álvaro López Miera.
Il prossimo cambiamento al vertice si svolgerà in uno scenario pieno di incognite. Fallita la breve stagione della luna di miele con l’America di Obama, il regime, in difficoltà anche per il tracollo del Venezuela di Maduro che riforniva Cuba di petrolio a basso costo, è tornato sulla scena internazionale a cercare il sostegno di Mosca e Pechino frenando le riforme. Il primo segnale, a metà 2017, è stato il blocco delle licenze per le nuove attività private e la campagna contro l’arricchimento dei cosiddetti “cuentapropistas”, lavoratori e manager non statali. Ma l’economia stagna, il turismo è in discesa e la maggiore risorsa dell’isola continua a essere il flusso di rimesse ai famigliari dei cubani espatriati. Chiunque arriverà dopo Raúl dovrà affrontare la recessione economica di un Paese dal quale continuano a scappare sempre più giovani, mentre con Trump l’America sta tornando alla vecchia politica dell’isolamento sperando che prima o poi l’isola, ormai postcastrista, imploda.
L’AVANA Quando il sole tramonta, e d’inverno lo fa molto presto anche qui, i viali di questa capitale sono quasi tutti in penombra. Anche lungo l’avenida che scivola accanto alla piazza della Rivoluzione la sera è spettrale. Buie le strade del Vedado, il vecchio ed elegante quartiere borghese dell’Avana, e poi giù fino alla fine del Malecón, il lungomare, accanto alle vie sconnesse dell’antico centro coloniale dove invece brillano di luce solo il Capitolio e il Teatro Nazionale appena restaurati. Le ombre scure delle strade sono il segno inequivocabile delle difficoltà venezuelane, il regime fratello, ricco di petrolio, che rifornisce di greggio Cuba sempre meno e costringe l’isola a risparmiare energia. Non è un bel momento. I segnali dell’involuzione politica che si erano visti dopo la morte di Fidel Castro, e la fine delle speranze di apertura che aveva suscitato la storica pace con Obama, sono ormai più che tangibili. Con l’avvento di Trump alla Casa Bianca anche i turisti americani che appena un anno fa sciamavano, come predatori insaziabili, alla conquista di ogni angolo della città, avidi di passeggiate in almendrones – le mitiche Chevrolet anni cinquanta – di sigari e di rum, sembrano essersi volatilizzati. Forse il Luna park jurassico dello Stato comunista a 90 miglia dalla Florida li ha già stancati. Ma l’effetto combinato del breve boom turistico statunitense sta lasciando macerie. I prezzi degli alberghi sono andati alle stelle e la middle class canadese e britannica, ossia quelli che sostenevano, insieme a italiani, francesi e spagnoli, una delle poche risorse dell’isola, stanno cambiando aria perché “Cuba costa troppo”. E così, finito l’effetto emotivo, negli ultimi mesi del 2017, anche il turismo ormai stenta. Basta guardare la folla di tassisti alle porte degli alberghi. Sei mesi fa rifiutavano le corse perché ne avevano troppe, oggi inseguono i potenziali clienti fin dentro le loro stanze. L’American Express, che due anni fa annunciò il suo sbarco sull’isola, non è mai arrivata. Come non sono arrivati i sospirati capitali americani. E neppure la fine della doppia moneta. Lo Stato paga in pesos, ma ormai l’economia funziona in Cuc, moneta pregiata che equivale all’euro. I problemi sono sempre gli stessi: la farraginosità e confusione della burocrazia statale e le regole che, consentendo investimenti solo in joint venture con i cubani, dissuadono anche chi vorrebbe farli. D’altra parte è evidente che nelle alte sfere del potere si sono spaventati. L’avvio delle imprese private, con le centinaia di bed and breakfast amatoriali che fanno concorrenza agli alberghi di Stato, i ristorantini, gli elettricisti, i meccanici e, perfino i barbieri, in proprio, rischiano di creare una piccola classe media sempre più difficile da tenere a freno nelle rigide maglie del sistema socialista-solidale. Chi si è arricchito veramente in questi anni di riformismo raulista sono i più vicini alla nomenclatura castrista, come quelli che possono affittare tre o quattro stanze a 100 euro a notte nei villoni donatigli dal Partito al Vedado o a Miramar. Ma anche tanti altri qualcosina hanno iniziato ad accumulare.
Indietro tutta
Così i deputati dell’Asamblea del Poder Popular, il parlamento di Cuba che si riunisce due volte l’anno, hanno trascorso diverse sedute a discutere di accumulazione capitalistica. Quante stanze può possedere un albergatore privato con licenza per essere considerato ancora socialista? Due, tre, quattro? E quanti tavoli in un ristorante? E quanti ristoranti? E le gelaterie? E che metratura dei negozi? E che cosa si può vendere? Il primo risultato sono nuove leggi più restrittive per impedire l’espansione dell’attività commerciale. Il secondo la caccia ai ricchi. All’Avana, trascinando via il proprietario ammanettato in mezzo ai clienti che mangiavano, hanno chiuso uno dei migliori e più frequentati ristoranti della città. Si chiamava “Star bien” ( Stare bene). La polizia ha anche sequestrato al proprietario il palazzetto a due piani che è stato subito riassegnato: diventerà un piccolo albergo per bambini orfani. Accuse precise nessuna. I vicini vociferano sul fatto che il ristorante comprasse carne di manzo di contrabbando – che è anche uno dei pochi modi di ottenerne a Cuba -, oppure che i gestori trasferissero illegalmente i guadagni all’estero, in banche del Messico, per aggirare le tasse. Il fatto sorprendente è che tra i proprietari di “Star bien” ci fosse il figlio di un eroe della rivoluzione. L’ex ministro degli Interni, generale Abelardo Colomé Ibarra, detto “Furry”. Fino a due anni fa, quando chiese la pensione ufficialmente per ragioni di salute, Colomé Ibarra era uno dei tre o quattro uomini più potenti di Cuba. La tecnica sembra quella, molto selettiva, del “colpirne uno per educarne cento”. Ma anche altri paladar (ristoranti privati) e qualche discoteca hanno fatto la stessa fine. José Raúl, il figlio del generale, insieme ad alcuni soci, dopo aver aperto “Star bien”, aveva messo in piedi un gruppo imprenditoriale privato, comprato partecipazioni in altri ristoranti (come il Chachachá, anch’esso chiuso di recente), e finanziato progetti di altri “cuentapropistas”. Una strategia commerciale espansiva. Esattamente quello che il regime vuole impedire per evitare la concentrazione di ricchezza nelle mani di privati cittadini. Dieci anni dopo l’inizio delle riforme economiche di Raúl Castro, circa il 20 per cento della forza- lavoro a Cuba è impegnata anche in attività non statali. Il dinosauro socialista è sempre lì e paga stipendi da fame – meno di 30 euro mensili in media – in una moneta nazionale, il Cup, con cui si compra a stento la verdura ma si va al cinema e a teatro.
Se volete, il futuro si chiama Yamileh. Lei non ha neppure vent’anni ma è già un’imprenditrice. Il negozio è casa sua. Fa tutto via Facebook, che raggiunge in uno degli internet point collettivi. Yamileh rivende leggins messicani, intimo di Panama, scarpe di Miami, smalto per le unghie, shampoo, balsami e profumi. La sua fortuna è stato suo cugino Jesús. Il cugino di Yamileh è uno di quelli che hanno pagato 10mila dollari ai cartelli narcos messicani per attraversare il deserto di Chihuahua è arrivare alla frontiera con il Texas. I soldi erano un prestito di alcuni parenti che vivono in Florida per consentire al giovane Jesús di raggiungere la terra promessa. Ma è arrivato tardi. All’inizio dell’anno scorso, lasciando la Casa Bianca, Obama ha cancellato la legge che considerava tutti i cubani “rifugiati politici” con diritto all’asilo se riuscivano a presentarsi ad un posto di frontiera degli Stati Uniti. Un privilegio su tutti gli altri migranti di cui i cubani hanno goduto dagli anni Sessanta del secolo scorso. Per essere accolti bastava alzare le mani e presentare un documento. E nel giro di un anno si aveva la residenza americana. Jesús arrivò a Città del Messico mentre la Casa Bianca abrogava la legge, più nota come “Dry feet, wet feet” (Piedi asciutti, piedi bagnati). Ora, finché resta valido il suo visto di ingresso in Messico, Jesús fa il “mulo” per Yamileh nella speranza di ripianare il suo debito con i parenti in Florida. A Città del Messico compra i prodotti di abbigliamento che Yamileh rivende a casa sua dopo averli pubblicizzati su Facebook. Per la legge cubana al ritorno dal primo viaggio dell’anno si possono portare indietro valigie piene fino a 120 chili e la tassa d’importazione si paga in pesos locali, cioè quasi niente. Dal secondo viaggio il peso dei prodotti importati scende a 30 chili ma spesso basta allungare qualche dollaro alla frontiera per portare un po’ di più. Così le “mulas”, sono soprattutto donne, il primo viaggio lo fanno a Panama, dove nella zona franca esentasse caricano computer, televisori di ultima generazione, condizionatori d’aria, cellulari. Negli altri invece trasportano capi d’abbigliamento o prodotti di bellezza che pesano meno. È un commercio semi- illegale, che rifornisce di tecnologia e vestiti i ricchi dell’isola, al quale si sono dedicati a centinaia. Tanto che trovare un posto sugli aerei per Panama è diventata una scommessa. Ma “las mulas” viaggiano ovunque ci sia un Paese che accetta l’ingresso di un cubano senza visto. Ecuador, Bolivia e Russia. Però a Yamileh questo piace meno perché – dice – i vestiti made in Ecuador a Cuba non li vuole nessuno. Così si tiene stretta suo cugino Jesús e lo accompagna sempre in aeroporto. Il sogno di Yamileh è quello di avere un giorno un negozio tutto suo. Ma nonostante suo nonno sia un ex ambasciatore in pensione la licenza ancora non l’ha avuta. Però, poi ragiona, e dice che è meglio così. Meglio vendere da casa anche perché se avesse un negozio i leggins che le porta suo cugino dovrebbe tenerli nascosti visto che è vietato rivendere in pubblico prodotti importati con “las mulas”.
Alina invece ha aperto una gelateria. Ovviamente il cono si compra solo con i Cuc, la moneta che equivale agli euro, ma gli affari vanno bene. «Qui siamo sempre mezzo illegali – dice -, la macchina che fa il gelato viene dall’Italia e non avrei potuto importarla». Lei è contenta perché ogni tanto, con quello che guadagna, può portare le figlie a fare shopping a Miami. Sono le discussioni con suo padre che è iscritto al partito che la ossessionano. «Mi dice sempre: ma perché hai bisogno di tutti questi lussi per vivere?».
Ci basterebbe un prestito
Isabel e Paula sono una coppia gay. Da qualche tempo hanno trasformato la loro casa in un bed and breakfast per turisti. L’ultimo piano di un palazzetto a Centro Havana, uno dei quartieri più poveri e diroccati della capitale. Dall’esterno fa un po’ paura la facciata screpolata e piena di buchi ma all’interno l’appartamento, come spesso capita qui, è caldo, accogliente e molto ben arredato. Isabel e Paula affittano due stanze, 35 Cuc l’una. Altri 5 Cuc per la colazione. Qualcos’altro incassano con le commissioni se consigliano un altro affittacamere quando loro non hanno posto – «cosa che grazie al cielo succede spesso», sorride Isabel -, quando chiamano un taxi o indicano un ristorante ai clienti. Adesso nelle stanze ci sono due ragazze giapponesi. «Ai ragazzi più giovani – dice Paula – piace venire qui proprio per le strade non asfaltate e piene di polvere, siamo in un quartiere molto trendy». Ora si lamentano ancora dell’uragano perché dai mercati sono scomparse le uova e preparare la colazione senza è più difficile. In realtà sono scomparse anche la birra Cristal, la più bevuta a Cuba, e pure la carta igienica. Ma quello succede anche senza il ciclone. La Cristal scompare – spiegano – perché i distribuitori la danno sottobanco ai ristoranti privati prima che alle rivendite pubbliche. Ma il vero cruccio di Isabel e Paula è un altro. L’appartamento che sta sotto quello loro è in vendita. E se a Cuba ci fosse una banca che fa credito potrebbero comprarlo pagandolo a rate. «Con un’ipoteca sul nostro potremmo farlo e allargare la nostra attività, affittare altre stanze», sussurra Isabel. Ma una banca ipotecaria qui non c’è. Missione impossibile. L’altra cosa che le preoccupa è che non possono sposarsi – i matrimoni gay non sono permessi -, né regolarizzare il loro amore con l’unione civile. Come nuovo presidente vorrebbero Mariela, la figlia di Raúl, «perché ha fatto tanto per i diritti delle minoranze sessuali». Non hanno nulla contro il regime politico a partito unico ma vorrebbero che l’economia privata fosse molto più aperta e portasse un po’ più di benessere. Paula, per esempio, ha un’altra casa di famiglia a Varadero, vicino alla spiaggia. La regalò Fidel Castro a suo padre. Ma quello è un territorio privilegiato, nessuno ha ottenuto licenze per affittare stanze private a Varadero. Infine, sbuffano insieme: «Il problema di Cuba oggi è che se anche puoi permettertelo non puoi acquistare quello che ti serve ma soltanto quello che trovi. Certo però, noi speriamo che McDonald’s qui non arrivi mai».
Uno psichiatra
Lo chiameremo Osmany perché come molte altre persone che abbiamo incontrato non vuole dare il suo nome e neppure farsi fare una fotografia per timore di subire ritorsioni dal regime cubano. Osmany è uno psichiatra. È cattolico e si considera un sacerdote laico perché con lo stipendio in pesos lavora praticamente gratis. Le persone che chiedono la sua assistenza in ospedale ora sono soprattutto di due tipi: gli anziani depressi per la solitudine perché i loro parenti più giovani se ne sono andati. E i rimpatriati, anziani anche loro che sono tornati a Cuba dopo aver vissuto molti anni fuori dall’isola. Il fenomeno del ritorno a casa è abbastanza diffuso tra quei cubani che sono andati negli Stati Uniti e non hanno fatto fortuna. Tornano perché a Cuba hanno la sanità, malmessa ma gratuita. I famigliari di Osmany sono tutti all’estero e anche lui è stato sul punto di andarsene diverse volte. «Sono rimasto – dice – perché a questo punto voglio vedere come va a finire. Mi piace il lavoro che faccio e anche questo senso d’incertezza del futuro in cui viviamo dopo la morte di Fidel». Poi, ricordando le speranze suscitate dal viaggio di Obama a Cuba (marzo 2016) sostiene che Raúl Castro in realtà sta molto meglio con Donald Trump. «Hanno bisogno di un nemico per non cambiare nulla. Obama era un pericolo perché non sapevano come gestirlo. Mi ricordo il suo discorso trasmesso in televisione mentre spiegava ai leader cubani che cos’è la democrazia. Io ho cominciato a piangere. Loro davanti alle telecamere non sapevano da che parte rigirarsi. Fu straordinario». Osmany sostiene che sull’isola tutti vivono una doppia morale. Mentono per paura della repressione. «La prima volta che ho mentito – ricorda – non ero ancora adolescente. Ero andato in Chiesa per una messa clandestina e non potevo dirlo a nessuno dei miei amichetti perché allora assistere alla messa era proibito». «Oggi – conclude – rischiamo una nuova stagione di caccia alle streghe. La prossima fine della presidenza di Raúl rende tutto più imprevedibile. Chi s’era illuso con le aperture del regime rischia».
La vere ossessioni di David sono due: trovare le tele per dipingere i suoi grandi quadri e i “culeros”, i pannolini usa e getta per sua figlia neonata. All’Avana non è affatto facile trovare né quelle né gli altri. Uscito qualche anno fa dall’Accademia, David è uno dei giovani pittori che prova a farsi strada sulla scia di una generazione più anziana che va fortissimo. A New York l’arte cubana è di nuovo di gran moda. Nelle case d’asta come Christie’s un pittore e scultore cubano contemporaneo come Roberto Fabelo si vende oggi a 200mila dollari al pezzo. E non è il solo. Dalla pax di Obama i mercati d’arte americani hanno setacciato l’isola visitando tutti gli studi in cerca di pittori giovani da comprare per scommessa in attesa che, tra qualche anno, diventino fuoriclasse sul mercato internazionale. «Un artista – dice David – deve vivere qui anche se non gli piace. Certo – aggiunge – sono preoccupato che mia figlia crescerà in un regime illiberale come questo ma io non posso andarmene. La mia pittura senza la luce di Cuba non avrebbe senso». Poi David critica gli artisti che hanno fatto del dissenso il soggetto delle loro opere. «Il dissenso – dice – è una ovvietà, come artista non mi interessa». «Voi stranieri che venite all’Avana non vi rendete conto di quanto consenso abbia ancora questo regime. Basterebbe andare nelle campagne per accorgersi che la gente più è povera e più accetta le cose come stanno, anzi le difende. Per Castro l’ideale sono i poveri – sottolinea – perché più sono poveri più lo appoggiano». «Anche io come tanti altri sogno il giorno in cui il Partito convocherà un’adunata per qualche anniversario rivoluzionario e saremo tutti liberi di non andarci». Infine David conclude raccontando un aneddoto recente. Un vice ministro cinese in visita per verificare i lavori di ristrutturazione del porto di Santiago, la seconda città dell’isola, dove Pechino ha investito 120 milioni di dollari avrebbe detto a un suo omologo cubano: «Avete un problema da risolvere. Voi a Cuba non volete i ricchi, noi in Cina non vogliamo i poveri».
Gli artisti e la censura
Carlos Celdrán è uno dei drammaturghi e direttori di teatro più famosi di Cuba. La sua ultima opera, “10 millones”, è ispirata alla famosa “zafra”, la raccolta della canna da zucchero, del 1970, quando Fidel Castro per compiacere l’Urss e il blocco socialista che in cambio dello zucchero rifornivano Cuba di viveri, auto e petrolio, lanciò appunto la raccolta dei 10 milioni di tonnellate di canna da zucchero. La cifra non si raggiunse mai ma tutta l’isola partecipò alla sfida. L’opera di Celdrán racconta quell’epoca attraverso il dramma di “un figlio della rivoluzione” diviso tra l’amore per un padre gusano (verme) e anticastrista che poi lascerà il Paese rifugiandosi nell’ambasciata del Perù, e quello per una madre dirigente rivoluzionaria. È un racconto autobiografico perché i genitori di Celdrán erano proprio così e paradosso vuole che oggi vivano entrambi negli Stati Uniti, il padre a Miami e la madre a Tampa, ma non si parlino «perché da quando si divisero per ragioni politiche non si sono mai più incontrati». Nei mesi d’euforia per la pax americana l’opera critica di Celdrán è stata rappresentata con molto successo anche a New York e accolta come un avvenimento che rompeva i canoni del regime castrista considerato all’estero sempre piuttosto censorio. «Per la verità dice Celdrán – io ho sempre lavorato abbastanza liberamente. Il teatro a Cuba ha sempre avuto il prestigio di essere uno spazio liberale dove un atteggiamento critico è ammesso». «Vivo qui per scelta, non perché non posso andarmene. Ma d’altra parte non potrei fare altrimenti perché un drammaturgo ha bisogno di conoscere molto bene il pubblico per il quale scrive. E il mio pubblico è quello cubano. Se andassi a vivere in Spagna, per esempio, non saprei più per chi scrivo il mio teatro». Una delle scene più commoventi di “10 millones” è quando il ragazzino sfila con i suoi compagni di scuola davanti alla sede dell’ambasciata del Perù piena di rifugiati cubani che vogliono fuggire dall’isola. E lui, mentre grida slogan rivoluzionari, sa che anche suo padre è lì dentro. Sul momento presente Celdrán pensa che il timore dei governanti sia verso l’avvento di una prosperità economica che porti con sé la fine del regime socialista. «La chiave secondo me sta lì». Con la cultura il regime castrista ha spesso usato la mano di velluto. Scrittori e musicisti hanno sempre avuto il permesso di viaggiare all’estero anche quando, prima delle riforme di Raúl Castro, a tutti gli altri era proibito di farlo. E quest’atteggiamento morbido stanno lì a dimostrarlo alcune star milionarie che risiedono tranquillamente sull’isola. Uno famoso è Jacob Forever, un re del reguetón, la musica più ballata oggi a Cuba. Ogni tanto la censura se la prende anche con i testi delle sue canzoni ma è libero di girare i suoi video a Cuba e di venderli negli Stati Uniti e nel resto del mondo. Altri recentemente hanno avuto qualche problema in più, come il regista Carlos Lechuga, autore di un film, “Santa y Andrés”, girato sull’isola con una produzione indipendente ma poi proibito nelle sale e bandito dal Festival del cinema dell’Avana.
Le speranze che un riavvicinamento con gli Stati Uniti portasse a Cuba milioni di turisti americani e nuove occasioni di commerci rischia adesso di lasciare anche qualche cattedrale nel deserto. Una potrebbe diventare la nuova zona franca del porto di Mariel. Luogo che nei programmi di Raúl sarebbe dovuto diventare un grande polo economico, dove le aziende straniere avrebbero potuto installare fabbriche per produrre a costi più bassi merci da esportare verso gli Usa e non solo. Un po’ come accade con le famose imprese “maquilladoras” lungo le frontiere del Messico, quelle che Trump vorrebbe disintegrare insieme all’accordo di libero commercio firmato da Clinton nel 1994. La maggior parte degli investimenti per le infrastrutture del Mariel erano brasiliani. Targati Odebrecht. La multinazionale dello scandalo latinoamericano. Prima di “Lava Jato”, la Mani pulite dei giudici brasiliani, venne Dilma Rousseff a benedire Mariel. Poi la rappresentante di Odebrecht a Cuba è fuggita di notte, senza lasciare tracce. Ora a Mariel è quasi tutto fermo in attesa di tempi migliori. Un’altra cattedrale in attesa di clienti è all’Avana il meraviglioso, e molto costoso, Hotel Manzana. Ai margini del centro storico, l’Habana vieja, l’albergo è stato ristrutturato con i fondi di una impresa alberghiera svizzera – Kempinski – e gestito in joint venture con Gaviota, l’azienda turistica delle Forze armate cubane. Operazione dedicata a un turismo di gran lusso, magari americano. Al piano terra del Manzana ci sono quattro gallerie foderate di marmo con numerosi negozi di marche pregiate. Da Montblanc a Lacoste. Ai quali però i cubani non possono neppure avvicinarsi, infatti sono lussuosissimi ma vuoti. Ma neppure i turisti visto che le sovrattasse sull’importazione a Cuba sono altissime. Esempio: una penna Montblanc nel centro commerciale dell’albergo costa il 212 per cento in più che in qualsiasi altra parte del mondo. La verità è che alcune riforme liberali dell’epoca raulista avevano la trappola. Un esempio che fanno tutti è l’apertura al commercio delle auto. Prima di Raúl nessun privato cubano poteva acquistare un’automobile. Le assegnava lo Stato con i suoi criteri. Ora si può ma è un’illusione visto che sull’acquisto di auto importate c’è una tassa pari a otto volte il valore di listino. Esempio: comprare a Cuba una Peugeot 508 può costare anche più di 250mila euro.
La battaglia delle idee
Piano piano si ha come l’impressione che dopo essere passata per il decennio delle riforme di Raúl, coronato con la ripresa delle relazioni con l’America alla fine del 2014 e dallo storico viaggio di Barack Obama, con la presidenza Trump Cuba stia tornando a Fidel. Ai tempi della guerra per la restituzione di Elián, il bambino che alla fine del 1999 venne salvato nello Stretto della Florida dopo che la zattera sulla quale era con sua madre affondò. Elián, sei anni, unico superstite della tragica fuga, venne consegnato ad alcuni parenti che vivevano a Miami finché suo padre non ne chiese la restituzione a Cuba e Fidel Castro non organizzò decine di manifestazioni per riaverlo. Oggi Elián, 24 anni, è un ingegnere e lavora in un cantiere navale vicino alla sua città natale, Cardenas, due ore e mezza di macchina dall’Avana. A Cardenas, un paesotto di agricoltori con le case basse, le strade polverose e i carretti trascinati dai cavalli, la più grande attrazione è il Museo Elián, inaugurato da Fidel quando il ragazzino tornò a Cuba ( e fece perdere le elezioni presidenziali a Al Gore, punito nella strategica Florida dai gusanos cubani). Sul muro di fronte all’ingresso c’è un murales con un enorme pugno chiuso e un dito medio alzato rivolto all’America. Dentro un lungo viaggio nei conflitti dell’indomabile Cuba contro l’imperialismo. Prima quello spagnolo, con le guerre d’indipendenza, poi quello americano con tutti i tentativi trascorsi e respinti di sostituire il colonialismo dei re di Spagna con quello della Casa Bianca di Washington. Un’epopea ipernazionalistica che esalta le convinzioni dell’ex líder máximo morto a 90 anni il 25 novembre del 2016. Tanto che quando ci permettiamo di segnalare all’ottima guida che ci illustra il museo che «l’Europa gli americani l’hanno liberata dal nazismo», la risposta è un sibilo secco: «Beh, a noi no!». L’ambasciata americana all’Avana, quella riaperta in pompa magna da John Kerry a metà del 2015, è di nuovo solo un grosso e brutto casermone quasi vuoto circondato da una lunga fila di transenne che impediscono di passargli accanto. Trump l’ha svuotata del “personale non indispensabile” dopo l’affaire degli “attacchi acustici”. Episodio mai completamente chiarito secondo il quale i diplomatici Usa sarebbero stati colpiti da ultrasuoni non identificati che avrebbero provocato, ad alcuni di loro, danni al cervello. Altro che “guerra fredda”, un’autentica spy-story. Così oggi i cubani che vogliono chiedere un visto per viaggiare in America devono presentare la pratica all’ambasciata americana di Bogotà, in Colombia. E presentarsi fisicamente lì. «Come scalare una montagna – commenta sconsolato Osmel, un vicino perché prima di arrivarci bisogna avere un visto per entrare in Colombia». Archiviata, con l’avvento di Trump, la politica di riavvicinamento con Washington, il regime cubano è tornato a guardare verso la Russia e la Cina, le uniche due potenze mondiali che stanno facendo investimenti milionari nelle infrastrutture dell’isola, ferrovie e porti.
Diaz-Canel e la successione facile
Fare l’ambasciatore straniero a Cuba è un lavoro difficile. Prima regola: quando incontrano i giornalisti preferiscono farlo “off the records”, senza registratori, per evitare problemi. La frase di prammatica è: «Mi raccomando, io e lei non ci siamo mai visti». Poi, tranne qualche loro collega privilegiato ( russi e cinesi), la maggior parte degli ambasciatori hanno pochissimo accesso a informazioni autentiche e fonti dirette. Farsi ricevere da un ministro può essere una corsa a ostacoli, giornali e tv sono solo gazzette ufficiali e, dalle stanze del potere, le notizie escono solo come rumors, pettegolezzi, per sentito dire. Così, come nella Mosca prima dell’ 89 quando erano tutti cremlinologi, oggi a Cuba diventano cubanologi. I diplomatici accreditati si riuniscono tra di loro in piccoli circoli chiusi e incrociano quello che hanno saputo per setacciare cos’è vero e cosa no. A novembre è stato destituito all’improvviso il direttore di Granma, l’organo del partito comunista cubano, e ancora nessuno ha capito perché. La breve nota ufficiale parlava di «errori commessi nell’esercizio delle sue funzioni», senza specificare altro. Comunque, tra i diplomatici, il prossimo futuro viene descritto così: con l’uscita di Raúl nulla sarà più come prima. Prima Fidel e poi suo fratello hanno governato l’isola come una riserva privata con un potere quasi assoluto e indiscutibile, accentrando ogni carica. È ovvio che chi gli succederà non godrà di una simile autorità incontestabile da moderno Re Sole. Il futuro del governo è collegiale. Il potere verrà suddiviso. Ci sarà un presidente del Consiglio di Stato, l’organo più importante. Un diverso presidente del Consiglio dei ministri. Un segretario del partito comunista e, infine, un capo delle Forze armate. Tutto quello che è ancora concentrato in una sola persona – prima era Fidel oggi è Raúl – verrà ripartito. E proprio questa discussione sui prossimi equilibri interni può aver rinviato di un paio di mesi l’addio alla presidenza del leader cubano. Un aspetto che preoccupa è la legittimità dei nuovi governanti. I fratelli Castro avevano vinto una rivoluzione armata ma i prossimi leader saranno tali soltanto per grazia ricevuta. Infine, è una convinzione nei circoli diplomatici, i prossimi capi del governo sanno che dovranno proseguire nella riforma del modello castrista evitando che le diseguaglianze sociali, tra chi sta già nell’universo privato e chi è rimasto in quello pubblico, continuino ad allargarsi. Ma senza una riforma politica. A Cuba non ci saranno libere elezioni né una transizione come quella che s’impose, per esempio, in Spagna alla fine degli anni Settanta dopo la morte del dittatore Francisco Franco.
Qualcuno ci crede
L’architetto italiano Luciano Ugetti è uno tra quelli che ancora crede in un prossimo futuro di prosperità economica. In passato Ugetti ha progettato e costruito sull’isola villaggi turistici. Ha sposato una ragazza cubana con la quale è tornato qui attratto dalle aperture alle attività private, la via cino- vietnamita del socialismo caraibico immaginata da Raúl Castro. Ora il suo progetto è trasformare il turismo a Cuba in un paradiso per la terza età, convincendo le associazioni dei pensionati in Italia a comprare appartamenti nei villaggi sul mare per il benessere dei loro soci. In un altro grande progetto raulista, i resort superlusso con i campi da golf, c’è anche una importante azienda italiana, il gruppo Astaldi. Ma i programmi vanno a rilento sempre per questioni legali e per l’assenza di una banca che si possa occupare di credi-ti e ipoteche, in questo caso ai clienti stranieri che potrebbero comprare appartamenti nei resort.
Cosa pensano i cubani
Un sondaggio svolto in collaborazione con il Washington Post ha provato a dare un’idea delle opinioni dei cubani sulla vita nella loro isola. Tre quarti dei cittadini consultati, il 75 per cento, ad una domanda sulla libertà d’espressione ha risposto che sente di non dover esprimere liberamente il proprio pensiero per evitare guai. Il 34 per cento riceve denaro dall’estero ma la metà di questi meno di mille dollari l’anno. Il 55 per cento vorrebbe emigrare e il 52 vorrebbe farlo negli Stati Uniti. Nel cuore dei cubani, Raúl batte Fidel. Il 47 per cento manifesta una opinione positiva dell’attuale presidente in carica mentre più del 50 ha ricordi negativi del líder máximo. Ma il 79 per cento risponde di non essere affatto soddisfatto del sistema economico vigente e il 98 per cento crede che una normalizzazione delle relazioni con gli Stati Uniti sia un bene per Cuba ma il 54 per cento pensa anche che il sistema politico cubano non cambierà.
Il cerchio magico
Fidel Castro ha sempre tenuto lontana la sua famiglia dalla gestione di qualsiasi sfera del potere. Raúl ha fatto invece l’esatto contrario. Nessuno dei cinque figli maschi del matrimonio di Fidel Castro con Delia Soto del Valle ha mai avuto ambizioni di incarichi politici, vivono tutti agiatamente ma lontano dai riflettori. Nella famiglia di Raúl le cose sono andate diversamente. Mariela è deputato, dirige un centro statale di educazione sessuale (il Cenesex), si batte per i diritti delle minoranze omosessuali ed è stata spesso indicata anche come possibile successore del padre alla guida del Paese. Un altro figlio di Raúl, Alejandro, è il capo dei servizi di intelligence. Colonnello dell’esercito ha visto crescere in questi anni il suo ruolo politico vicino al padre guidando i negoziati per la pace con gli Stati Uniti favoriti dalla mediazione vaticana. Mentre Fidel se n’è sempre disinteressato, Raúl ha messo spesso al primo posto la famiglia. Era lui, nei primi anni post rivoluzione che manteneva vivi i rapporti con la madre e le sorelle, perfino con Juanita che si oppose alla svolta prosovietica della rivoluzione e lavorò come agente della Cia prima di rifugiarsi, nel 1962, negli Stati Uniti. E sempre lui era quello che cercava di riparare i disastri sentimentali di Fidel proteggendo la prima moglie del comandante en Jefe, Mirta Diaz-Balart e il piccolo Fidelito. E che poi si occupò fino alla fine, prima che anche lei scappasse a Miami, di Alina, la figlia illegittima del fratello. Gli altri due parenti nel cerchio magico del potere sono il suo nipote preferito, Raúl Guillermo Rodríguez Castro, che il leader cubano ha messo a capo della sua scorta personale e, soprattutto, l’ex genero, il marito divorziato della primogenita Deborah, Luis Alberto Rodríguez López- Callejas che da presidente di Gaesa, l’holding dei militari, controlla la maggior parte degli affari economici delle Forze armate. Anche per questo, sono molti gli analisti di cose cubane convinti che alla fine il più probabile successore di Raúl alla presidenza, Miguel Díaz-Canel, sarà soprattutto un personaggio di facciata, dietro al quale la cosiddetta “famiglia reale” – i Castro – continuerà in realtà a governare come ha fatto finora.
Le Forze armate
Il vero bastione del castrismo sono le Forze armate. Nel decennio raulista il loro peso specifico è cresciuto molto e oggi i generali hanno il controllo del 65 per cento di tutta l’economia dell’isola e, soprattutto, attraverso “Gaviota”, una costola di Gaesa, di una delle risorse più importanti, ossia il turismo. Fin dagli anni Sessanta del secolo scorso, dalle Forze armate, che ha fondato sul modello sovietico, Raúl ha costruito un contropotere rispetto al modo di governare, spesso anarchico e imprevedibile, del fratello. Fidel ha sempre preferito collaboratori civili, Raúl militari. E da quando ha preso da solo la guida del Paese ha lavorato per estendere l’egemonia dell’esercito sulla società cubana. La sua prima vittima fu Habaguanex. Fu il primo nocciolo d’eccellenza della svolta turistica alla metà degli anni Novanta. Alberghi, ristoranti, caffè e birrerie di Stato nel cuore dell’Habana Vieja, il vecchio centro ristrutturato con il concorso di capitali pubblici soprattutto europei. Fidel ne affidò la gestione a Eusebio Leal, un civile, famoso e apprezzato studioso della Storia della capitale cubana. Raúl ha requisito il tutto incorporando Habaguanex, un vero gioiello turistico, nella cassaforte delle Forze armate e del suo ex genero Rodríguez López-Callejas. Lo stesso è successo per decine di villaggi turistici passati dal controllo del governo a quello dell’esercito e di Gaviota che negli ultimi anni è diventata anche l’unica holding turistica con il permesso di costruire nuove infrastrutture. Per questo è molto probabile che il peso delle Forze armate, anche sul governo, continuerà ad aumentare. L’uomo emergente in questo ambito è il generale Álvaro López Meira, l’ultimo barbudo in pista visto che si unì alla guerriglia dell’esercito ribelle contro la dittatura di Batista poco prima del 1959, quando non aveva ancora quindici anni.