La Stampa, 5 gennaio 2018
Mekong, il fiume conteso divide l’Indocina
«Un tempo le piene arrivavano naturalmente, con l’alternarsi delle stagioni», ricorda Saravuth sul lungofiume di Phnom Penh, nel punto in cui il Tonglé Sap e il Mekong si incontrano. «Ora non è più così», aggiunge. «L’imponente sistema di dighe lungo il bacino del grande fiume sta provocando enormi danni ambientali e blocca la migrazione dei pesci».
Saravuth è nato a Stung Treng, non lontano dal confine con il Laos, e per generazioni la sua famiglia ha pescato ed essiccato il pesce per produrre il prahok, la pasta dall’odore pungente onnipresente nella cucina cambogiana.
Venduta la barca e le reti, Saravuth si è trasferito a Phnom Penh, dove ha ingrossato le file dei lavoratori delle costruzioni. Secondo alcuni osservatori il sistema di dighe e la gestione delle acque nel bacino del Mekong potrebbe essere la miccia di una nuova crisi tra Cina e i Paesi del Sud-Est asiatico, pari alle contese territoriali nel Mar Cinese Meridionale.
«Sfondo per guerre e massacri, il Mekong ha sempre alimentato divisioni più che l’unità», sostiene Milton Osborne, specialista di Sud-Est asiatico e autore di Mekong: Turbulent Past, Uncertain Future. Fin dalla guerra del Vietnam, il Mekong ha esercitato enorme fascino in Occidente. Si tratta di un’infatuazione recente. È solo nella seconda metà dell’800 che Ernest Doudart de Langrée e Francis Garnier fecero la prima esplorazione del fiume. Ossessionati dal Mekong, i due europei cercavano una porta d’accesso per la Cina. Dopo la seconda guerra d’Indocina – mentre i partiti comunisti prendevano il potere in Vietnam, in Laos e in Cambogia, rendendo il corso del fiume inaccessibile agli occidentali – il Mekong è uscito dalla memoria collettiva. Solo all’inizio degli Anni 90 – quando tutte le capitali dell’Indocina hanno lanciato programmi di apertura e riforme economiche – il Mekong è tornato a essere una via cruciale per l’integrazione e lo sviluppo di una delle regioni più dinamiche del mondo.
Fonte di vita
Il Mekong scorre nel cuore dell’Asean: il gruppo di Paesi del Sud-Est asiatico, dove vive oltre mezzo miliardo di persone e che nel 2017 ha registrato una crescita economica del 5%. La sua sorgente è stata individuata sul lato settentrionale del Lasagongma, ghiacciaio dell’altopiano tibetano, nella provincia cinese del Qinghai. Per i cinesi è Lancang Jiang, «il fiume increspato». Prima di sfociare nel Mar Cinese Meridionale, nel corso dei quasi 5 mila chilometri del suo percorso segna i confini tra Laos e Birmania e poi quello tra Thailandia e Laos. Percorre da Nord a Sud la Cambogia, prima di aprirsi nel Sud del Vietnam nell’enorme Delta dei «nove draghi». Dodicesimo fiume al mondo per lunghezza, ma secondo solo al Rio delle Amazzoni per biodiversità: nelle sue acque ci sono oltre 1.200 specie di pesci. Mezzo di trasporto e fondamentale fonte di cibo per 60 milioni di persone. Mae Nam Khong, la Madre delle acque, lo chiamano i thai. La dieta di cambogiani e laotiani è dominata dalla pesca e ogni anno il fiume garantisce 2,6 milioni di tonnellate di prodotti ittici. Le acque del grande fiume irrigano e rendono fertili i campi, consentendo la produzione di riso in una regione che è in testa alle classifiche mondiali per le esportazioni del cereale.
La retorica di Pechino
Per affrontare la gestione delle acque e lo sviluppo sostenibile e condiviso tra i paesi rivieraschi, nel 1995 è nata la Mekong River Commission (Mrc). Forum inter-governativo il cui parere non è vincolante e di cui fanno parte Thailandia, Cambogia, Laos e Vietnam. Cina e Birmania sono solo «dialogue partner» della Mrc. Negli ultimi anni c’è stato un fiorire di forum per la cooperazione regionale e il Mekong è diventato strumento di geopolitica tra le grandi potenze. L’amministrazione di Barack Obama ha proposto la Lower Mekong Initiative per rafforzare le relazioni degli Usa con i Paesi che si affacciano sul Mekong, mentre la Cina ha lanciato la Lancang-Mekong Cooperation Mechanism. La retorica di Pechino parla della costruzione di una «comunità dal futuro condiviso», anche se la Repubblica Popolare ha sempre rifiutato di consultarsi e coordinarsi con gli altri Paesi rivieraschi per la gestione delle acque. La strategia è collaudata: i progetti milionari sono discussi a livello bilaterale e le diverse capitali della regione spinte a competere per i finanziamenti cinesi. Nell’ambito dell’iniziativa Belt and Road, Pechino punta a espandere i propri collegamenti economici con il Sud-Est e a migliorare le infrastrutture e i collegamenti nella regione.
«Le navi saranno cinesi»
L’idea delle autorità cinesi è di migliorare la «navigabilità del fiume» e consentire il passaggio delle grandi navi cargo da 5.000 tonnellate fino a Luang Prabang, antica capitale del Laos. Gli ambientalisti thai non vedono i benefici economici dell’operazione. «Le navi saranno cinesi e porteranno merci dalla Repubblica Popolare», dicono gli attivisti del Chiang Korn Conservation Group. Sono decenni che questi gruppi denunciano anche che il livello delle acque del fiume si stia abbassando. La causa? Il sistema di dighe che a partire dall’inizio dai primi Anni 90 la Cina ha costruito sul corso principale del fiume. «Forse avremo l’elettricità, ma non potremo più pescare». Sette le grandi dighe idroelettriche che la Repubblica Popolare ha costruito lungo il corso principale del Mekong nella provincia dello Yunnan. Nel 2010 un panel di esperti della Mrc aveva raccomandato una moratoria sulla costruzione di nuove dighe per consentire un serio studio sull’impatto ambientale. Un monito inascoltato. Mentre le stime della International Energy Agency dicono che negli ultimi 15 anni il fabbisogno di energia del Sud-Est asiatico è cresciuto del 60%, altri Paesi stanno seguendo l’esempio della Cina. «Per far uscire il Laos dal sottosviluppo entro il 2020, questa è la nostra unica scelta», diceva Viraphonh Viravong, membro del governo di Vientiane.
Il prezzo più alto
Paese piccolo, povero e senza sbocchi al mare, il Laos ha deciso di puntare sulla costruzione di dighe idroelettriche e di trasformarsi nella «pila del Sud-Est asiatico». Vientiane prevede che alla fine saranno undici le dighe nel tratto del basso Mekong e altre decine sugli affluenti del grande fiume. In Laos Pechino ha contribuito alla realizzazione delle dighe di Don Sahong e Pak Beng. Improbabile che i 70 mila laotiani che ancora non hanno accesso all’energia elettrica ne avranno qualche vantaggio, Vientiane venderà la maggior parte dell’energia prodotta alla Thailandia e al Vietnam. Anche la Cambogia – dove il costo dell’energia è tra i più alti d’Asia – ha deciso di lanciarsi nella costruzione di dighe sugli affluenti del Mekong. È il Vietnam che sta pagando il prezzo più alto. Le dighe hanno il loro impatto ambientale, anche se molti sono i fattori che danneggiano il bacino: consumo del suolo, agricoltura intensiva, cambiamenti climatici. La tensione tra Cina e Vietnam è tornata a salire nel 2016, quando il delta ha sofferto un’eccezionale stagione di siccità provocata da El Niño e si registrava la crescita dei livelli di salinizzazione e di erosione degli argini. Le autorità di Hanoi hanno chiesto a Pechino di aprire le dighe e il primo ministro vietnamita Nguyen Xuan Phuc ha promesso un investimento di un miliardo di dollari mentre «ci sono segnali che la ciotola di riso del Paese sta scomparendo».