Il Sole 24 Ore, 5 gennaio 2018
I dubbi su Fs-Anas, non sia solo maquillage finanziario
Con la definizione degli a dempimenti per la fusione Fs-Anas, prende corpo l’operazione, in attesa del visto della Corte dei Conti e del parere Antitrust. Resta irrisolta una vistosa incertezza su una delle condizioni richieste dal decreto che ha avviato l’operazione: l’adeguatezza dei fondi stanziati nel bilancio Anas per la chiusura del diffuso contenzioso accumulato (e lasciato lievitare colpevolmente) fino a circa 9 miliardi, tanto da richiedere l’ennesima deroga alle regole del codice civile per consentire più “comodamente” una fusione che passa attraverso conferimento in Fs del patrimonio Anas, come corrispettivo dell’aumento di capitale riservato deliberato. Di fronte al silenzio di società e governo alla richiesta di informazioni del Parlamento, che getta ombre sulla stabilità dell’intera operazione, devono essere messi in evidenza alcuni punti.
Con l’operazione si registra una sorta di maquillage finanziario, consentendo ad Anas spa, con il trasferimento delle azioni a Fs, di sfuggire all’inclusione nel campo dei soggetti compresi nell’elenco Istat (e quindi nel conto consolidato delle Pa secondo criteri Eurostat e severamente tenuto sotto osservazione Ue). Obiettivo già perseguito con il contratto di programma 2016-2020 e la riconfigurazione dei contributi previsti. Una sana e trasparente gestione dei bilanci pubblici impone di augurarsi che questo aspetto – sbandierato come uno dei più positivi – non si risolva solo in artificio contabile miope, che potrebbe provocare effetti ben più gravi per la reazione di controllori europei non certo sprovveduti di fronte agli artifici.
Resta un fatto: per consentire la fusione, il Governo non ha esitato a distrarre consistenti risorse già destinate a investimenti (adeguamento Salerno-Reggio Calabria) da delibere Cipe negli anni 2002 e 2004 (governo Berlusconi). È auspicabile la risoluzione di contenziosi pendenti da anni (da cui non emerge la brillantezza di gestione di Anas), ma non riducendo le risorse agli investimenti per accedere ad accordi bonari con appaltatori privati che consentano ad Anas di presentarsi “immacolata” al matrimonio con Fs.
Qui arriva il terzo punto. Tutta l’operazione messa in piedi dal governo è legata alla effettiva individuazione di una strategia industriale che premi l’integrazione strada-ferrovia. Se è solo uno strumento per la riduzione di costi per effetto della integrazione di funzioni o processi trasversali, siamo all’ennesima mistificazione sulla pelle del contribuente. Quali sono le garanzie che la crescita dimensionale non sacrifichi la necessaria agilità, con la lievitazione del personale per 6.000 unità in un colosso che già ne ha 73.000 circa? E le innovazioni di processo e di obiettivi richiedono questa contaminazione delle dorsali tradizionali (strada-ferrovia)? Davvero l’operazione è in grado di assicurare le ambiziose stime di crescita esponenziale degli investimenti complessivi del mega-gruppo?
Restano irrisolti altri nodi: come potrà Anas, una volta conferito il patrimonio a Fs, continuare a esercitare i controlli connessi al mantenimento della titolarità di tutte «le concessioni, le autorizzazioni, le licenze, i nulla osta e tutti gli altri provvedimenti amministrativi comunque denominati»? C’è rischio di depotenziamento dei controlli sui concessionari autostradali. E ancora, l’interruzione del processo di valorizzazione e dismissione degli immobili di proprietà Anas già stimato in bilancio non determinerà un buco nei conti pubblici che qualcun altro dovrà colmare per assicurare la doverosa stabilità dei bilanci?
Se, poi, il significato industriale dell’operazione lo si deve cogliere nella trasfigurazione di Anas quale nuovo attore sullo scacchiere internazionale, ci accontenteremmo di una più modesta (ma non meno importante) concentrazione “domestica” per risolvere i nodi irrisolti di una dotazione infrastrutturale stradale ampiamente inefficiente e non all’altezza dei comuni standard di sicurezza e affidabilità. Senza dimenticare che logica avrebbe voluto che questo disegno di crescita del gigante ferroviario si rivolgesse ad assorbire in una rete autenticamente nazionale le tante società operanti in regime di concessione con livelli di sicurezza che eventi recenti hanno reso evidente quanto siano drammaticamente superati. Qui si profila un ulteriore aspetto: se già la permanenza sotto il medesimo gruppo di Rfi e Trenitalia resta una mina vagante di fronte alle possibili obiezioni Ue rispetto a una reale apertura del mercato a concorrenti terzi, la risposta non può essere quella di un soggetto ancora più grande, inglobando anche la società deputata alla gestione della infrastruttura stradale. Non vogliamo che dietro questo sfrenato gigantismo si celi soltanto l’ambizione per un volume complessivo di risorse pubbliche che possano essere più liberamente spostate da una finalità all’altra: a dispetto della agognata liberazione dai vincoli Eurostat, allora, non di mera flessibilità si tratterebbe, né di ardite operazioni contabili, ma di un ben più pericoloso gioco sul sottile filo della sicurezza connessa agli investimenti occorrenti per la manutenzione e l’adeguamento della rete stradale e ferroviaria.
Finchè questo disegno non sarà svelato in tutte le sue implicazioni, è doveroso lo scetticismo di chi non si accontenta di proclami da “taglio di nastro”, ma che nessuno si augura siano destinati a infrangersi contro realtà ben più rilevanti di un mero risultato di bilancio positivo.
Renato Brunetta è presidente
dei deputati di Forza Italia