il Giornale, 4 gennaio 2018
Gli Stati Uniti e la diplomazia dei dollari. «Taglieremo i fondi anche ai palestinesi»
Show me your money, mostrami i soldi, è un modo di dire per verificare le intenzioni dell’interlocutore. Non si scherza coi soldi. Trump è un businessman e lo fa sapere ai suoi elettori, come quando rivede il bilancio del suo Paese, tagliando di qua (clima, sanità), aumentando di là (difesa). Le notizie delle ultime settimane sono tagli di contributi internazionali che segnalano altrettante scelte strategiche dell’amministrazione Trump. Tutte chiedono rispetto per le scelte americane e per una attiva visione del mondo. Il contrario di Obama che pensava che il suo compito fosse tirarsi indietro, cancellare un’influenza storica che riteneva oppressiva.
Il presidente ha usato il suo temibile tweet chiedendo perché mai dovrebbe seguitare a contribuire miliardi ai palestinesi quando essi «non hanno intenzione di parlare di pace». Trump ha anche detto che la questione di Gerusalemme avrebbe richiesto un prezzo elevato anche da Israele. Come a segnalare che Netanyahu avrebbe dovuto, se i palestinesi avessero accettato la trattativa, cedere qualcosa di importante. Insomma, Trump dice: ci tenevo alle trattative, e i palestinesi boicottano. Gli Usa dal 1990 hanno portato nelle loro casse 5 miliardi di dollari. Dopo tanta spesa e così poca simpatia, Trump si è stufato, e se l’America non piace perché dovrebbe seguitare a versare più di 300 milioni dollari l’anno? Poche ore avanti la sua ambasciatrice Nicky Haley aveva minacciato un altro importante taglio, che va insieme alla minaccia del taglio dei fondi Usa all’Onu. Si tratta dei fondi trasferiti all’Unrwa, 386 milioni nel 2016: un’organizzazione nata nel 1948 per i profughi palestinesi. Invece di ricollocarli li ha tenuti in campi negli anni fino a farne milioni di pretendenti al «ritorno» in Israele. È un’organizzazione permanente per profughi, figli, i nipoti, i pronipoti, ed è in odore di complicità con Hamas.
Nel 2016 l’Unesco ha ricevuto l’annuncio del ritiro della delegazione; l’Onu è dal 2011 già dai tempi di Obama che è stata licenziata. È di pochi giorni fa l’annuncio che si smette di passare al Pakistan il consistente assegno da 225milioni l’anno, 33 miliardi dal 2002: Trump si è dichiarato deluso della politica di Islamabad che si è rifiutata di collaborare nella lotta al terrorismo. I palestinesi hanno ruggito una risposta filosofica: ricattatore, se non arrivano più i finanziamenti, i giovani soffriranno, i servizi di sicurezza in comune collasseranno e molti resteranno in preda alla confusione e alla violenza. E si ergono contro «il ricatto americano». Ma è solo un esame spietato della situazione, nuovo quando il mondo è pronto a chinare il capo davanti alla prepotenza immaginando che ne otterrà la pace. Come Chamberlain. Questa vecchia storia somiglia molto a un ricatto. Per esempio negli anni ottanta l’acquiescenza verso i palestinesi doveva salvaguardare il nostro Paese dal terrore. Non fu così. La strage di Fiumicino del 1985 come l’attacco alla sinagoga di Roma del 1982 in cui morì Gaj Tache, dimostrano che quando ti pieghi il nemico ne approfitta. Trump cerca di creare una strada per battere il terrorismo. Ci prova. Ne fa parte anche il suo sostegno ai rivoltosi in Iran.