Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  gennaio 04 Giovedì calendario

«La matematica è lotta per la libertà». Intervista a Stephen Smale

Quando si pensa a un matematico del passato sulle barricate viene subito in mente Evariste Galois, il precoce genio francese che morì a vent’anni in un duello, dopo aver ispirato una rivoluzione algebrica e partecipato a una rivoluzione politica. Quando si pensa invece a un matematico contemporaneo sulle barricate viene altrettanto subito in mente Stephen Smale, il poliedrico genio statunitense che mezzo secolo fa vinse la medaglia Fields, e a 87 anni continua a essere vulcanico e radicale come a venti. Al Forum delle medaglie Fields di Heidelberg, in pubblico ha parlato della sua attuale ricerca di modelli matematici per la struttura cellulare del cuore e la circolazione del sangue, e in privato ci ha raccontato del suo cinquantennale impegno politico.
Com’è successo che un matematico divenne uno dei leader della rivoluzione studentesca degli anni Sessanta a Berkeley?
«A dire il vero, non sono stato un leader del movimento studentesco, anche perché all’epoca io ero già un professore. Semplicemente, ero favorevole al cosiddetto Movimento per la libertà di parola (Free Speech Movement) che gli studenti avevano fondato per poter manifestare nel campus, e ho marciato varie volte con loro nel 1964».
Però all’epoca il suo nome veniva spesso associato a quello di Jerry Rubin.
«Sì, ma per il movimento contro la guerra in Vietnam, che era una cosa distinta e molto più generale, tanto da coinvolgere tutta la nazione.
Anche se in un certo senso scaturì dalla protesta studentesca, che noi sfruttammo come detonatore».
Come incontrò Rubin?
«Fu lui a venirmi a cercare, nel 1965, perché sapeva che avevo partecipato ad alcune marce studentesche».
Era anche lui studente a Berkeley?
«Direi piuttosto un “non studente”. Dapprima organizzammo qualche piccola manifestazione, ma poi decidemmo di cambiare scala e organizzare qualcosa di grosso al campus, sfruttando appunto gli spazi che erano stati conquistati dal Movimento per la libertà di parola. Prima non si sarebbe potuto fare, perché l’università imponeva restrizioni molto pesanti alle assemblee, ma il nuovo corso non impedì a centinaia di studenti di essere comunque arrestati per i sit-in contro la guerra».
Fu arrestato anche lei?
«No, perché non volevo farmi arrestare: molti consideravano il finire in galera come una versione moderna del martirio, ma non tutti credono che sia utile essere martiri».
I suoi colleghi come presero il suo impegno politico?
«L’Università della California è statale e il governatore dello Stato, che era Ronald Reagan, voleva che venissi licenziato. Il presidente dell’Università, Clark Kerr, fu dalla mia parte e si oppose, ma in seguito venne licenziato lui per le sue aperture».
Cosa accadde nel 1966?
«Anzitutto ricevetti un mandato di comparizione di fronte alla Commissione parlamentare sulle attività antiamericane, che l’anno dopo avrebbe convocato anche Jerry Rubin e Abbie Hoffman. In quel momento però ero a Mosca per ritirare la mia medaglia Fields, e a Washington dovettero fare le loro sedute senza di me. Ma io organizzai una conferenza stampa sulla scalinata dell’Università di Mosca e lessi una dichiarazione in cui criticai le politiche belliche sia degli Stati Uniti che dell’Unione Sovietica. La cosa fece ovviamente molto scalpore, in entrambi i paesi.
E al suo ritorno in patria?
«Proposi al Movimento contro la guerra in Vietnam di organizzare una gigantesca dimostrazione contro la base militare di Oakland, che era un avamposto per le truppe che andavano nel Sud-Est asiatico.
La base ovviamente era presidiata dai militari, e la mia idea era di assediarla pacificamente con decine di migliaia di pacifisti. Ma il direttivo bocciò la proposta, con cinque voti contro quattro. Rubin e io ce ne andammo dal Movimento per protesta e poco dopo lui fondò il suo Partito internazionale giovanile (Youth International Party)».
Con la Cina non ha mai avuto a che fare?
«Non ho mai voluto avere a che farci, e per motivi politici ho sempre rifiutato gli inviti che mi facevano. Ma nel 1989, con l’apparente apertura agli studenti, accettai per la prima volta e arrivai agli inizi di maggio. Sono stato in varie università del paese, ho marciato con gli studenti in Canton e ho visitato più volte il quartier generale dei dimostranti in piazza Tienanmen».
Era ancora lì quel tragico 4 giugno?
«No. Per combinazione avevo lasciato Pechino e la Cina il 3 giugno, com’era programmato fin dagli inizi, perché dovevo proseguire il mio viaggio in Africa e Pakistan. Ma in quell’occasione io non ero comunque un dimostrante, solo un osservatore esterno».
E ora marcerebbe di nuovo con gli studenti contro Trump?
«Naturalmente Trump non mi piace per nulla, e penso che sia semplicemente terribile. Ma non mi piaceva nemmeno Hillary Clinton, se è per questo, perché rappresentava lo status quo della politica americana, a causa del suo supporto del militarismo e dell’interventismo americani. Pensi a quanti paesi, soprattutto arabi, sono stati bombardati mentre lei era Segretario di Stato: il “premio Nobel per la pace” Obama è stato terribile in questo, ma la Clinton era anche peggio».
Lei non sembra amare l’establishment. Non andrebbe alla Casa Bianca nemmeno in visita?
«Ci sono andato nel 1996, ma per un motivo scientifico, non politico: la consegna della Medaglia nazionale della scienza da parte di Clinton.
Nell’occasione incontrai il mio amico Joseph Stiglitz, che poi prese il premio Nobel per l’economia, ma all’epoca era il consigliere economico del presidente. Con lui vado d’accordo politicamente, non solo scientificamente».
Le sue opinioni su Trump e la Clinton ricordano che la democrazia si basa su un grosso paradosso: essere costretti a scegliere il male minore, invece del bene maggiore.
«Churchill diceva: “La democrazia è la peggior forma di governo che abbiamo, tolte tutte le altre”. Io comunque mi rifiuto di scegliere al ribasso, e in genere non voto. Ho cose più importanti da fare, che fingere di giocare alla democrazia».