la Repubblica, 4 gennaio 2018
L’amaca
Il mio pulsante nucleare è più grosso e potente del tuo, e funziona bene» (tweet del presidente degli Stati Uniti rivolto al presidente coreano Kim) è una frase che, non fosse vera e autografa, parrebbe sortita da una sceneggiatura di Mel Brooks.
È satira allo stato puro, maschi di potere che confrontano le rispettive ogive, il calibro e la gittata, come i marmittoni – nel loro piccolo – quando gareggiano a chi piscia più lontano.
Secoli di diplomazia, di formalità protocollari, di buone maniere e di altre utili cautele hanno cercato di dare una veste meno indecorosa a questo sfoggio primitivo, che ha il merito di ricordarci che veniamo dalle caverne, ma il demerito di farci disperare di esserne mai usciti. Il significato dell’irruzione di Trump sulla scena internazionale, da questo punto di vista, è inequivocabile: non esiste sforzo di civilizzazione, non esiste evoluzione culturale che possa davvero imbrigliare l’animale che siamo. Ogni volta che la nuova destra populista ostenta modi bruschi e linguaggio buzzurro, si illude di rappresentare la liberazione dall’ipocrisia.
Mette in scena, al contrario, la più antica e la più imbarazzante delle prigionie, quella dell’uomo in balia della propria bestialità, come il gorilla e l’alce, ma senza le evidenti attenuanti del gorilla e dell’alce, che almeno, quando combattono, rischiano in proprio.