la Repubblica, 4 gennaio 2018
Dubcek e il sogno della Primavera mai sbocciata
Eterogenesi dei fini. Ironia e capriccio della Storia.
Chiamiamolo come vogliamo, ma quando il 5 gennaio di cinquant’anni fa Alexander Dubcek venne eletto capo del Partito comunista cecoslovacco, a Mosca il suo omologo, anzi il padrone Leonid Breznev tirò un sospiro di sollievo. Dubcek era slovacco, ma parlava il russo meglio della sua lingua natia perché era cresciuto in Urss, bravo scolaro, ottimo pioniere. Era un perfetto uomo sovietico insomma, il personaggio che avrebbe finito per portare al fallimento l’ultimo e generoso tentativo di costruire “il socialismo dal volto umano”, vittima dello stesso Breznev. Suo padre, emigrato dalla poverissima Slovacchia a Chicago, a metà anni Venti scelse come patria d’elezione il Paese di Lenin e Stalin. Portò con sé la moglie e il bambino Alexander che tutti chiamavano con il nome russo Sasha. Sasha in Slovacchia approdò solo 17enne nel 1938, ma in Russia ci tornò ancora: nel 1955 per studiare Scienze politiche.
Negli anni Sessanta la Cecoslovacchia era governata da un ex prigioniero di Mauthausen, Antonín Novotný, salito al potere quando Stalin era vivo e vegeto.
Aleggiava ancora nell’aria lo spettro del processo Slánský, una vicenda traumatica che vide nel 1952 condannati a morte dirigenti del Partito, accusati di tradimento e “cospirazione sionista”. Furono riabilitati soltanto nel 1963, ma senza che lo stalinismo fosse messo seriamente in questione.
Nel contempo, sempre nel 1963, durante le celebrazioni del centenario di Matica Slovenskà (matrice slovacca), un’istituzione nata per promuovere la cultura e la lingua slovacche, appunto, si erano sentite voci che chiedevano parità di diritti delle due nazioni della Cecoslovacchia. Una rivendicazione, cui i comunisti locali non erano estranei.
Ma sono prima di tutto gli scrittori, i teatranti, i registi del cinema, gli intellettuali a chiedere che l’aria nel Paese cambi. Integrati nel circuito della cultura occidentale, vogliono vivere e lavorare, come appunto si fa in Occidente. Così il teorico della letteratura Eduard Goldstücker organizza convegni sul praghese (mal visto dalle autorità perché critico della burocrazia) Franz Kafka. Autori come Bohumil Hrabal, Milan Kundera, Pavel Kohout, Ludvìk Vaculìk, o il giovane Václav Havel, scrivono libri e mettono in scena commedie che poco hanno a che fare con l’ideale estetico del socialismo reale. Il cinema vive la stagione di una “nouvelle vague”.
Certo, c’è Milos Forman. Ma la metafora dello stato d’animo del Paese che si avvia verso la sua “Primavera” è interpretata da un capolavoro dimenticato di Vera Chytilová, Le margheritine. La pellicola, comica, narra di due “cattive ragazze”, Maria I e Maria II. Le due trasgrediscono ogni precetto di buona condotta e di morale borghese e nel loro viaggio iniziatico e avventuroso (e anche femminista), finiscono per demolire la sala, con tavoli sontuosamente apparecchiati, dove dovrebbero banchettare i capi del partito. Il film dai medesimi capi del partito fu giudicato “decadente”.
Aggiungiamo gli studenti che nel 1967 scendono in piazza a Praga, e così arriviamo alla fatidica riunione nel dicembre 1967, a cui Novotný invita Breznev, sperando nel suo aiuto. Invano, perché l’uomo venuto da Mosca dice ai vassalli di Praga “eto vashe delo”; sono affari vostri. Il 5 gennaio 1968 Dubcek è al potere, con soddisfazione del Cremlino.
Quel che segue è la solita dinamica delle rivoluzioni. La Storia infatti raramente procede per tappe e in genere difficilmente corrisponde alle intenzioni dei suoi artefici. Il potere cerca di imporre dei limiti, ma la libertà concessa non basta più. Così Dubcek, uomo timido che prediligeva le mediazioni, per non allarmare Mosca parlava del “socialismo dal volto umano”.
Nessuna fuoriuscita dal Patto di Varsavia, nessun discorso sull’introduzione del capitalismo.
Certo, si discuteva delle riforme economiche, ma sempre nel quadro delle istituzioni socialiste.
La radicalità riguardava piuttosto la semantica del potere. Ecco, quel che risultava insopportabile ai vicini, soprattutto ai polacchi e ai tedeschi dell’Est (in Polonia gli studenti scandivano: «Aspettiamo il nostro Dubcek») era l’aria di libertà; i giornali senza censura; l’abbraccio del popolo ai capi. Con il senno di oggi è davvero difficile capire fino in fondo perché Breznev si sentì tanto deluso dal ragazzo Sasha, che comunque credeva nell’ideale socialista e fino all’ultimo drammatico incontro con il capo del Pcus, ad agosto, ribadiva di voler restare fedele al Patto di Varsavia. Finì comunque con l’invasione del Paese da parte delle truppe sovietiche e dei suoi alleati.
In realtà, però la storia non terminò così. I leader della Primavera cecoslovacca vennero arrestati, portati a Mosca e costretti a firmare un’umiliante dichiarazione di resa. Accettarono tutti, a eccezione di uno e vale la pena di ricordarlo, se non altro per salvare (per quanto si possa farlo) il buon nome del comunismo. Si chiamava Frantisek Kriegel, era ceco per libera scelta, visto che era nato a Stanislawòw, come ebreo austroungarico e a casa parlava polacco, yiddish e tedesco. A Praga andò per studiare medicina, preferì la capitale cecoslovacca all’allora polacca e vicina Leopoli (oggi in Ucraina). Da medico combatté in Spagna contro i fascisti; poi in Estremo Oriente contro i giapponesi alleati di Hitler. Tornato a Praga, nel 1960 fu spedito a Cuba per aiutare Fidel Castro e Che Guevara a costruire il sistema sanitario, accessibile a tutti. Nel 1968, a Mosca disse: «Potete fucilarmi, o spedirmi in Siberia, ma non firmerò». Non lo fucilarono, lo riportarono a Praga.
Morì, a fine anni Settanta, strettamente sorvegliato dalla polizia, attivista accanto a Havel dell’opposizione democratica.
Dubcek invece, gestì la normalizzazione (per salvare il salvabile), fino a quando nell’aprile 1969 alla carica del segretario del Partito gli subentrò Gustáv Husák; il pretesto fu l’inerzia della polizia dopo le manifestazioni di giubilo per la vittoria della squadra di hockey cecoslovacca contro l’Urss. Tornò in campo nel 1988. Da presidente della Camera tentò di fermare la secessione tra i cechi e gli slovacchi.
Non gli diedero retta.