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 2018  gennaio 04 Giovedì calendario

Il pulsante atomico più grande e potente. Donald Stranamore sfida il nemico Kim

Washington Intrappolato tra Freud e Einstein, fra le fissazioni maschili per il proprio “bottone” e la fissione nucleare, Donald Trump regredisce all’infantilismo da doposcuola e ricorda a Kim Jong-un di avercelo più grosso e di sapere farlo funzionare. Questo passaggio dalla strategia alla psicoanalisi è una novità, nella storia ormai ultra settuagenaria del rapporto fra i presidenti americani e “The Bomb”, l’atomica, l’ombra sotto la quale i Comandanti Supremi della forza americana devono camminare ogni secondo della loro vita.
Albert Einstein si pentì da vecchio di avere spinto Franklyn Roosevelt a lanciare il Progetto Manhattan credendo, per errore, che i nazisti stessero per costruire la prima atomica, ma il genio malvagio era ormai uscito dalla lampada e nessuna arma nella storia è mai stata “disinventata”. Da quell’agosto di Hiroshima, l’ombra della fine del mondo non cammina mai a più di due passi dal presidente, incarnata nell’ufficiale che porta il “football”, la valigetta coi codici per il lancio delle sei mila testate nucleari. O addirittura sta appiccicata al suo corpo, nel “biscotto”, la tesserina con i codici di identificazione personali che il boss deve portare sempre con sè, anche se è difficile immaginare dove la tenga Trump che ama frequentare i campi di golf in maglietta e calzoni troppo stretti per la sua corpulenta taglia.
Trump è il tredicesimo presidente ad avere sotto le dita il “bottone”. C’è sempre stata un’ambiguità strisciante in questi tredici uomini fra il terrore di dover schiacciare quel “bottone”, che bottone non è perché il lancio non è materialmente eseguito dai presidenti e la tentazione di usare la devastante scorciatoia della fissione nucleare, che chiuse in due settimane la guerra col Giappone. Finora, Truman escluso, il modesto merciaio di Kansas City che scoprì soltanto all’insediamento dopo la morte improvvisa di FDR di possederla, tutti hanno resistito alla voglia e alla paura. Lo stesso Truman licenziando in tronco il generalissimo MacArthur che aveva chiesto di poterla sganciare in Nord Corea, respinse il calice avvelenato e così Kennedy che pure sapeva, nel 1962, di avere una netta superiorità missilistica su Kruscev, nella crisi di Cuba. Altrettanto fece sempre l’Urss, anche quando, sprofondando del disastro afghano che l’avrebbe infine consumata, qualche prurito atomico dovette avvertire.
Ma con Donald Trump, con la sua visione adolescenziale e binaria di un mondo nel quale il più grosso può strapazzare il più piccolo, la tentazione del Dottor Stranamore si è manifestata come mai prima, anche se per ora soltanto nel lancio di tweet innocui. Ha promesso di espandere e rafforzare l’arsenale H, come se le seimila testate oggi attive non fossero abbastanza. Già in campagna elettorale, aveva chiesto a un consigliere «ma perché non possiamo usare la bomba?». Le sue allusioni alla «furia e al fuoco», a distruzioni «quali il mondo non ha mai visto» – dunque peggiori di Hiroshima e Nagsaki fanno capire come per lui, il tabù nucleare potrebbe essere demolito. Lo esaspera la petulanza di quel Kim che forse possiede un paio di bombette e qualche inaffidabile razzo e si permette di stuzzicare una potenza che potrebbe rovesciargli sulla testa migliaia di Bombe H assortite e che, senza rendersene conto, Trump onora trattandolo da legittimo avversario.
La tentazione cresce nel confronto improponibile fra Corea del Nord e Usa dove è caduto quel principio fondamentale che ha retto la “non guerra” nucleare per 70 anni, il principio del MAD, della Reciproca Distruzione Assicurata, anche se i generali che circondano il Presidente stanno cercando di spiegargli che ben difficilmente l’annientamento della Corea del Nord lascerebbe indifferenti Russia e Cina che il bottone possiedono, bello grosso anche loro.
Nonostante le sbruffonate, Kim non possiede nulla che possa raggiungere Los Angeles o New York, ma deve essere atroce, per un maestro del marketing e dello show business come Trump sentirsi deriso e scavalcato sulla scena dal despota di un miserabile Paese di “morti di fame”, come ha garbatamente twittato. C’è un fatto personale, perché la permalosità di Trump è patologica come la sua vanità, più che la classica “impotenza della superpotenza” nella frustrazione di un presidente che si sente Gulliver imprigionato da un lillipuziano, pur avendolo “grosso”. Un’immagine che sicuramente una presidente, Hillary Clinton, non avrebbe usato.