Corriere della Sera, 4 gennaio 2018
Conti in profondo rosso e infortuni in serie. Piange il piatto del rugby
Tra un mese, a Roma contro l’Inghilterra, l’Italia inizia il suo 19° Sei Nazioni e la novità non è certo la nostra candidatura a un altro cucchiaio di legno, ma il malessere che attraversa il mondo del rugby, che dopo aver immaginato e sognato di moltiplicare utili e giocatori, si ritrova a dover contare i quattrini e i superstiti.
Ultimo tra i grandi sport ad aprire al professionismo (1995), il rugby ha tentato di recuperare il tempo perduto finendo per creare un mostro. Troppe partite, troppi infortuni, troppi bilanci in rosso, nessuna reale espansione: le prime otto del mondo sono oggi le stesse di 40 anni fa, quando la Francia veniva ammessa (primo Paese a non parlare inglese) a pieno titolo nell’International Board, la federazione mondiale che oggi si chiama World Rugby.
Da allora, ranking a parte, è cambiato tutto. I giocatori sono diventati più grossi, più forti e più veloci, qualcuno è diventato ricco, quasi tutti hanno cominciato a collezionare infortuni. Anche i budget di club e federazioni si sono moltiplicati e oggi i conti non tornano più. Tolte Inghilterra e Francia (gli unici Paesi a potersi permettere un campionato nazionale che produce reddito) e la Nuova Zelanda (che incassa grazie agli All Blacks) gli altri Paesi – Italia compresa – non riescono a far quadrare i conti.
Per restare a galla sono nati campionati transnazionali: il Super Rugby tra neozelandesi, australiani, sudafricani, argentini e giapponesi; il Pro14 dove giocano irlandesi, gallesi, scozzesi, italiani e da quest’anno, in cambio di quattrini, anche sudafricani (un’assurdità, ma bisogna arrangiarsi). Tornei di alto valore tecnico ma di scarso valore economico. E per la prima volta il Sei Nazioni, nota macchina da soldi, non ha ottenuto quello che voleva. Scaduto dopo 14 anni il contratto di sponsorizzazione con la Royal Bank of Scotland, John Feehan, ad del Torneo, aveva fissato in 114,6 milioni di euro (19,1 a stagione per sei anni) il prezzo per chi volesse mettere il suo marchio. Nessuno si è fatto avanti e Feehan ha chiuso per un anno a 12,3 milioni con NatWest, la banca commerciale che dal 2000 fa parte del gruppo Rbs.
Ma i soldi e le gerarchie immutabili non sono gli unici problemi. Se Jonny Wilkinson, fermo dal 2003 al 2007 per una serie infinita di infortuni, era l’eccezione, oggi storie come la sua sono la norma. Della Nuova Zelanda campione del mondo nel 2015, Nehe Milner-Skudder non ha praticamente più giocato; Dane Coles è rimasto fermo per mesi per «misteriosi problemi alla testa» e, appena tornato, si è rotto un legamento; Kieran Read, il capitano, ha preso un anno sabbatico per evidente sfinimento. Nella Premier inglese si registra più di un infortunio serio a partita (1,2) e il tempo medio di recupero è di 29 giorni. Quando i proprietari dei club hanno detto al sindacato giocatori che servono più partite per aumentare i ricavi, la risposta è stata: «Non se ne parla, piuttosto pagateci di meno».
Warren Gatland, il neozelandese che allena il Galles dal 2007 ed è stato il tecnico degli ultimi due tour dei Lions, si è posto il problema. «Ho giocato a rugby e quando mi ritrovo con i vecchi compagni c’è chi si è rifatto un’anca, chi un ginocchio, chi ha male alla schiena. Ma il rugby che giocavo io era un altro sport. Oggi vedo gli impatti e resto impressionato. Come saranno ridotti questi ragazzi quando avranno 50 anni?». Nessuno lo sa. La federazione ha imposto sanzioni severe per i placcaggi al collo, ma l’incubo sono le commozioni cerebrali, favorite da un regolamento che porta naturalmente all’autoscontro e alle botte alla testa. Si parla di diminuire le sostituzioni (oggi si gioca in 23, non in 15, e il ritmo non si abbassa mai), ma intanto l’elenco degli infortunati sembra un bollettino di guerra.
Senza contare che il professionismo esasperato ha portato comportamenti sconosciuti. Si sono viste le prime simulazioni, gli allenatori vengono cacciati e i modi sono decisamente cambiati. Guy Novès è stato esonerato dalla federazione francese per «colpe gravi». L’obiettivo di Bernard Laporte, il presidente, è non pagargli quel che resta del contratto. I due si vedranno in tribunale.
Sarebbe bello, ha scritto il Times, se il giocatore che segna una meta irregolare lo dicesse all’arbitro, evitando il ricorso al Tmo (la moviola). Una volta, magari. Nel rugby di oggi non è difficile che accada. È impossibile.