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 2018  gennaio 04 Giovedì calendario

Intervista a Paolo Lorenzi: Ho giocato su campi inimmaginabili. Divertendomi sempre

La camera in uno degli alberghi da sogno che germogliano sulla skyline di Doha, gli autisti a disposizione, i bambini adoranti in fila per gli autografi. Ma non è sempre stato così, nella lunga e comunque felice carriera di Paolo Lorenzi, 36 anni, 4 mesi più giovane di Roger Federer, n. 43 Atp ma fisso da 15 anni nella top-5 dei tennisti più simpatici del mondo. «Quello che mi frega è che mi divertivo anche quando giravo in certi posti – ridacchia -. Figuriamoci qui».
Qualche esempio?
«Abidjan, Costa d’Avorio. Con me c’era Petrazzuolo, dopo due giorni mi dice: me ne vado, è troppo brutto. Per me non lo era. A Lermontov, in Russia, l’hotel sembrava una caserma. A Esikhir, in Turchia, non era tracciato neanche il campo, ma poi vinsi io. In certi tornei cinesi invece nessuno parla inglese e al ristorante serve il vocabolario».
Come ha resistito?
«Ho sempre amato i viaggi, conoscere gente diversa, alzarmi la mattina per allenarmi. Sono arrivato a 16 settimane filate di trasferta. E non mi pesavano».
Si è mai detto: basta, tanto non sfondo?
«No. Momenti difficili ne ho avuti. A 27 anni ero n. 230, senza un coach e sono finito per caso a Livorno. È da allora che sono col mio coach Claudio Galoppini e il preparatore Stefano Giovannini. Quell’anno persi subito a Noumea e agli Australian Open, ma ho continuato a crederci».
Determinazione?
«Sana incoscienza. Mia e dei miei genitori. Sapevano che il tennis era il mio sogno e che mi impegnavo. Ero iscritto a Medicina, ma l’Università andava a rilento, i risultati non arrivavano. In quei casi un genitore si preoccupa, invece mi hanno sempre sostenuto».
Il primo torneo Atp vinto a Kitzbuhel nel 2016, il miglior ranking, n.33 Atp e n.1 d’Italia, nel 2017: qual è l’elisir di lunga vita?
«Un po’ di fortuna, per schivare gli infortuni, e la voglia di migliorarsi sempre. Sul cemento ora faccio cose che da giovane non mi riuscivano, continuo a lavorare sul servizio. Poi ho fatto una gavetta così lunga che quando entro in campo penso sempre a godermi il momento».
Il matrimonio, a fine 2016, ha cambiato qualcosa?
«Elisa mi ha conosciuto che facevo questa vita, non mi chiede mai di tornare a casa, se mai è lei che fa un viaggio in più. Aiuta».
Con il suo coetaneo Federer ne parlate mai?
«A volte, lui però può permettersi cose diverse. È molto cordiale, ma fatica a fare una vita normale. Nello spogliatoio lo vedi poco».
È un tennis per vecchi?
«Lo è stato, ma da due anni sta cambiando. Arrivano giovani come Zverev, Khachanov, Rublev, che tirano fortissimo e cercano meno le variazioni. Chi sembra dominare oggi faticherà sempre più».
Sogni rimanenti?
«Giocare un’altra volta nella seconda settimana di uno Slam, come mi è capitato a New York. E ancora in Coppa Davis, un evento fantastico».
Magari fare da chioccia ai giovani tipo Berrettini, come qui a Doha?
«Mi piace allenarmi con loro. Lui, Donati, Napolitano, Pellegrino, Sonego: di forti ce ne sono, il tennis italiano si toglierà delle soddisfazioni».