Corriere della Sera, 4 gennaio 2018
Ritratto (proibito) di Avedon
Qualche mese fa, leggendo una copia pilota di «Avedon: Something Personal», la biografia di Richard Avedon scritta dalla sua ex assistente Norma Stevens e da Steven M.L. Aronson, era difficile non farsi una serie di domande. Perché sono passati tanti anni dalla morte del grande fotografo – scomparso il 1 ottobre 2004 – prima che qualcuno ne pubblicasse la prima biografia? Si tratta senza dubbio di uno degli artisti più importanti del dopoguerra, perché questo lungo silenzio editoriale? E perché Stevens, che per tutto il libro ripete quanto Avedon fosse geloso della sua privacy, ne viola proprio la privacy in maniera spietata, non soltanto rivelando le umane meschinità del maestro ma soprattutto facendone un outing forzato a mezzo stampa, e coinvolgendo nella rivelazione della presunta omosessualità tenuta segreta per tutta la vita anche quella di un suo amico e compagno, il famosissimo regista di teatro e cinema Mike Nichols, anche lui scomparso (nel 2014)? Perché molte delle conversazioni più frizzanti del libro avvennero stranamente senza testimoni che possano confermarle o contraddirne il contenuto? Davvero Avedon era sicuro, come scrive Stevens, che l’assistente e amica avrebbe un giorno scritto la sua biografia? Non aveva mai collaborato con biografi in vita, perché acconsentire alla pubblicazione delle sue confidenze private post mortem, vista anche l’enorme attenzione che Avedon dedicò a coltivare la sua immagine pubblica? Fu maestro assoluto della fotografia e del ritratto che però di sé, attraverso una vita lunghissima, pubblicò soltanto una manciata di auto ritratti.
Ora la risposta a tutte queste domande è stata data dalla fondazione che tutela l’opera e l’eredità di Avedon: il libro, dicono, è pieno di bugie, di inesattezze, utilizzerebbe come materiale un romanzo autobiografico che Avedon scrisse ma non pubblicò mai e il cui manoscritto sarebbe stato sottratto da Stevens. Per questo gli eredi hanno chiesto all’editore americano di ritirare il volume dalle librerie, ottenendo risposta negativa (i numerosi errori contenuti, ha promesso però la casa editrice, la Spiegel & Grau, verranno corretti in una nuova edizione).
Alcuni degli amici e colleghi intervistati per il libro spiegano ora che Stevens non spiegò chiaramente che stava scrivendo una biografia, ma una semplice storia del famoso studio di Avedon, altrimenti non avrebbero parlato.
La famiglia sottolinea come Stevens scrive di essere stata al fianco del fotografo mentre moriva, ma Avedon morì in Texas (stava scattando un servizio per il New Yorker) e quel giorno lei invece era a New York. E suscita quantomeno sospetti che il libro sia uscito dopo la morte di Nichols, rendendo così ovviamente impossibile una smentita (o una causa legale) del regista.
Che problema c’è nel rivelare la presunta omosessualità di un personaggio pubblico ormai scomparso? Legalmente, e giornalisticamente, nessuno. Sotto il profilo dello stile però appare bizzarro che la sua amica e confidente renda pubbliche cose che Avedon mai si sarebbe sognato di rendere pubbliche (per rispetto verso la moglie, il figlio, i nipoti? Per riservatezza d’uomo d’altri tempi? Impossibile dirlo).
Colpisce però come Avedon avesse sempre insistito sull’importanza della sua opera, delle sue fotografie, come sua eredità, senza raccontare troppo delle sue questioni private sulle quali spesso amava peraltro fuorviare raccontando bugie (in inglese lo stesso verbo può significare «giacere» e «mentire», Avedon spesso diceva che sulla sua tomba avrebbero scritto «Qui mente Richard Avedon»). Come ritrattista principe della sua era, ripeteva spesso di poter lavorare soltanto sulla superficie, non sull’anima dei suoi soggetti. Ma proprio avendo a disposizione nient’altro che gli sguardi, i volti, la postura, è riuscito a raccontare una straordinaria commedia umana. Quello che c’è in questo libro è molto diverso però, e in un certo senso conferma paradossalmente la bontà della filosofia di Avedon: importa davvero sapere che a Marella Agnelli, da lui ritratta in una delle immagini più belle della storia della fotografia, riservò commenti cattivelli, e con lei ebbe a discutere di una banale questione di soldi (la sponsorizzazione di una sua mostra italiana?). Queste informazioni modificano in qualche modo la bellezza assoluta di quella fotografia, un Modigliani impressionato per sempre su pellicola in bianco e nero?