La Stampa, 4 gennaio 2018
Quel bacione a Trieste rubato da Giacomo Joyce
A oltre un secolo dai suoi anni triestini, non sono rimasti molti misteri nella vita di James Joyce. Uno però sembra resistere al lavoro degli esegeti: chi fu la giovane donna che fece perdere la testa all’autore dell’Ulisse, tanto che per lei meditò di abbandonare la compagna Nora Barnacle, e a cui dedicò il poemetto in prosa Giacomo Joyce, anatomia d’un desiderio e d’una seduzione? Trieste è la città dove lo scrittore irlandese lavorò più intensamente al suo grande romanzo: ci era capitato per caso nell’ottobre del 1904 alla disperata ricerca di uno stipendio, per rimanerci con piccolissimi intervalli fino al 1915 e tornarvi brevemente dopo la Prima guerra mondiale. Divenne una città profondamente «sua», della quale parlava il dialetto (anche in famiglia con i figli) e dove cambiò un diluvio di case, frequentò tutte le possibili osterie, fece immigrare il fratello Stanislaus: che si fece compiutamente «italiano», e vi morì il 16 giugno 1956. Potenza dei numeri, e del carisma di James, era «Bloomsday», ovvero il giorno in cui si svolge l’azione dell’Ulisse, e in cui lo scrittore incontrò Nora.
Ora il professor Renzo S. Crivelli, in un libro dedicato al Giacomo Joyce, riassume e sistema le sue ricerche di molti anni, che hanno dato luogo anche a una sezione del Museo Joyce di Trieste dove spiccano le immagini di almeno tre giovani donne, a vario titolo indiziate come le possibili dedicatarie del poema, pubblicato postumo ma, come ci ricorda Crivelli, sicuramente destinato dall’autore a vedere la luce, posto che lo lasciò manoscritto, in bella copia, su fogli di pergamena, come faceva di solito per i testi «approvati». Il nome dell’allieva, ovviamente, non c’è. Lo scrittore la descrive così: giovane borghese ebrea, colta e laica, poliglotta, figlia di mercanti, «vergine prudentissima» dalle «lunghe labbra», la cui carne «ricorda un mattino velato di nebbia», una creatura liberty che si lascia rubare un bacio con fulminea indecisione: «Al premer lieve delle sue labbra, sospiroso esce il fiotto del suo fiato. Baciata!».
Richard Ellman, il primo grande biografo, che pubblicò il libretto nel ’68, congetturò si trattasse di Amalia Popper, figlia di un ricco imprenditore, nella cui casa Joyce arrivò come insegnante d’inglese nel 1908 – e per rispetto della signora lo studioso ne aveva aspettato la scomparsa, avvenuta nel ’67, prima di licenziare il testo. Ma l’ipotesi è stata revocata in dubbio. Roberto Curci, in Tutto è sciolto (Lindt), ha proposto un’altra soluzione: l’amata non sarebbe stata la Popper, che pure risentì del prepotente fascino di Joyce e nel ’35 pubblicò in traduzione cinque racconti da Gente di Dublino, col curioso titolo Arabi, ma Emma Cuzzi, altra allieva della buona borghesia triestina, incontrata a partire dal 1912, e che rimase in corrispondenza con lui negli anni in cui Joyce si trasferì a Zurigo.
Crivelli da parte sua, già in precedenti lavori, aveva optato decisamente per un terzo nome: Anna Maria Schleimer, figlia di un commerciante d’agrumi, allieva dello scrittore tra il 1905 e il 1906: che come soluzione pare assai persuasiva. Ora in Un amore di Giacomo (Castelvecchi) la ribadisce con molte prove. Ma soprattutto legge nel poema in prosa non solo «un» amore, quanto l’intenso e contraddittorio turbamento di amori reali o fantasticati. E con contraddizioni e forse autoironie mica da poco: per esempio, in uno dei racconti di Gente di Dublino (Una piccola nube) l’avventuroso e spiantato Gallaher parla a un amico di «migliaia di danarose ebree tedesche (…) ricche da far schifo e pronte a farsi sposare. Anche Anna Maria lo è, ma il brillante professore d’inglese, affascinante, talvolta insopportabile e soprattutto spiantato, ha fatto male i conti. Il progetto di nozze viene bloccato da una sentenza inappellabile del signor Schleimer: «Mai con quel maestrucolo d’inglese».
Restano una breve delusione, una lunga amicizia epistolare, e forse il bacio rubato del Giacomo Joyce. Lo scrittore sapeva indubbiamente farsi amare dalle allieve – in compenso la qualità dell’insegnamento era piuttosto scadente – benché a volte si presentasse ubriaco e altre volte si esibisse in piccole e divertenti pazzie a loro beneficio. Ma nello stesso tempo era condannato al suo ruolo di (attraentissimo) inquietante bohémien. A un certo punto scoppiò addirittura la rivolta delle madri, che a una a una ritirarono la maggior parte delle figlie da ogni tipo di lezione. Anche nella Trieste ancora asburgica e assai più libera in fatto di costumi rispetto all’Irlanda – e all’Italia, peraltro – a nessuno era concesso di esagerare.