Corriere della Sera, 4 gennaio 2018
I patiboli (invisibili) di Bagdad
Noi occidentali dovremmo imparare ad analizzare meglio le conseguenze della fine di un conflitto. Soprattutto a sorvegliare che non vengano commesse ingiustizie: in particolare laddove ci consideriamo vincitori, o, quantomeno, nei posti in cui le cose, sotto il profilo militare, sono andate come era nei nostri auspici. E invece… Il 2017 è stato l’anno del tracollo dell’Isis, per fronteggiare il quale ci eravamo alleati con entità abbastanza virtuose (i curdi) ed altre meno raccomandabili, come il regime di Bagdad. Regime del quale, adesso che «abbiamo vinto», non dovremmo mai perdere d’occhio la gestione del dopoguerra, quantomeno in tema di amministrazione della giustizia. O, per essere più precisi, della somministrazione di sentenze capitali.
Non è questa la sede per riproporre la totale ripulsa, ovunque in ogni parte del mondo, di quel genere di pena. Qui ci limitiamo ad alcune considerazioni su come essa viene applicata in Iraq. Con una premessa: nel 2013, l’anno che precedette la nascita di Daesh, gli iracheni mandati al patibolo furono 169, tra i record dell’orbe terracqueo. Con l’aggravante che quella pena era utilizzata soprattutto su presunti rei d’osservanza sunnita. Nel marzo di quell’anno, il viceministro della Giustizia Busho Ibrahim annunciò di aver mandato alla forca venti «oppositori» e la ministra degli Esteri europea, Catherine Ashton, levò il suo grido di dolore contro quella rivelazione dicendosene «profondamente rammaricata».
A fine 2013 Amnesty International certificò che l’incremento di sentenze capitali in Iraq, rispetto all’anno precedente, era stato del 30%. Molti di quegli impiccati – dopo processi che lasciavano a desiderare – erano, ripetiamo, sunniti. E nella popolazione sunnita fu questo un argomento fra i più persuasivi che agevolò il reclutamento da parte delle organizzazioni terroristiche. Il 24 giugno 2014 Abu Omar al-Baghdadi proclamò nella moschea di al-Nuri a Mosul la nascita dell’Isis e il califfato si distinse immediatamente con la vendicativa messa a morte di molti «prigionieri» orribilmente decapitati davanti alle telecamere: David Haines, Alan Henning, James Foley, Steven Sotloff, Peter Kassig, Hervé Gourdel, il giapponese Haruna Yukawa, in un crescendo che lasciò senza fiato il mondo intero. Venne, poco dopo, il ritrovamento di una fossa comune, ad Hamam al-Alil, con cento cadaveri decollati. Poi fu la volta delle immagini di un bambino – d’ una decina d’anni, vestito di nero – che «giustiziava» con una calibro 9 due supposte «spie russe». E successivamente di un altro piccolo – avrà avuto quattro o cinque anni – che pigiando un pulsante faceva saltare in aria un’auto con a bordo tre «condannati». Gridammo tutti all’orrore: in quei giorni giurammo pubblicamente che, nel caso l’Isis fosse stata sconfitta, avremmo fatto sì che quelle mostruosità non si ripetessero. E facemmo valere la circostanza che nel 2015, anno in cui finalmente ci eravamo impegnati in una lotta senza quartiere contro Daesh, nella retrovia irachena, anche per merito nostro, erano state punite con la pena di morte «appena» ventisei persone. Sempre troppe, ma decisamente meno numerose di quelle che avevamo dovuto conteggiare tre anni prima. E in numero minore anche di quelle uccise tra il 2014 e il 2015 dagli uomini del califfo.
Nel 2017 infine, a prezzo di una guerra sfibrante, l’Isis è stata sconfitta, quantomeno nel suo insediamento territoriale. Sicché il regime di Bagdad è tornato pienamente in possesso della sua sovranità. E come ha festeggiato? Riapplicandosi alle esecuzioni capitali di «terroristi», prevalentemente sunniti. A fine anno le autorità irachene hanno rivelato che nel corso dell’autunno in soli due giorni (25 settembre e 14 dicembre) ne son o stati fatti fuori un’ottantina, al cospetto del ministro di giustizia Haidar Al-Zamili. Il quale Al-Zamili ha spiegato che le condanne a morte erano state, a novembre, 459 a fronte di 1.490 assoluzioni e in ciò, a suo dire, sarebbe la prova di una giustizia amministrata con equità. Ma l’organizzazione Human Rights Watch ha fatto presente che in alcuni casi i processi sono durati poco più di un’oretta, Amnesty International ha eccepito circa la loro regolarità e il pur contestato Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite guidato dal principe giordano Zeid Raad Zeid al-Hussein ha chiesto l’immediata sospensione delle esecuzioni irachene.
In Italia soltanto l’associazione radicale «Nessuno tocchi Caino» ha dato prova di una qualche sensibilità nei confronti di questa orribile carneficina. In Europa non si è levata una sola voce di sdegno: neanche Federica Mogherini ha ritenuto di ricalcare le orme della Ashton. Ricordiamocene quando entrerà in scena una nuova formazione terroristica sunnita: quel giorno dovremo riconoscere che parte della responsabilità va attribuita a noi che, nel momento in cui avremmo dovuto denunciare quegli orrori, ci siamo distratti. E abbiamo fatto finta di non accorgerci dei patiboli di Bagdad.