La Stampa, 4 gennaio 2018
Barbagia, il selvaggio West nel cuore della Sardegna
Arrivarci non è facile, come è giusto che sia, perché la Barbagia di Seulo non è un luogo per tutti, isolato lassù, nel cuore della Sardegna, con il Gennargentu sullo sfondo. Ma il paesaggio colpisce dritto al cuore, restituendo un’idea di wilderness originaria che ha pochi paragoni in Italia. Le formazioni rocciose calcaree (qui le chiamano «Tacchi») dalle cime piatte ricordano le mesas americane, lasciando isolati pinnacoli e torri che nulla hanno da invidiare a quelle dei deserti d’oltreoceano. Ma qui ci sono foreste primarie di enormi lecci, sughere e roverelle che appaiono impenetrabili, e che custodiscono uno degli ultimi fiumi «selvaggi» del nostro paese, il Flumendosa, rovinato negli Anni 40 e 50 da due dighe che però non sono riuscite ad alterarne il mistero. Si scende sul fiume a Sa Stiddiola e si rimane ammaliati dal colore smeraldino delle acque cristalline, che formano piccoli meandri in cui d’estate ci si può tuffare. Lungo il corso d’acqua che scende dal Gennargentu non ci sono scarichi e qualche trota ancora si nasconde.
Tutto intorno sa di arcaico e compatto, come la civiltà nuragica millenaria che si era arroccata quassù. Come i suoi abitanti, pronipoti di quei sardi che scapparono sulle montagne per sfuggire all’impero di Roma e che qui hanno costituito un énclave autonoma che si è dotata di leggi precise, dove non conta ciò che è legale, ma ciò che è giusto. Una società tradizionale, già antica per gli antichi, che conserva riti e tradizioni ormai perduti altrove, se non nelle regioni remote del mondo. Una Nuova Guinea mediterranea.
Il codice
Barbari (da cui il nome della regione), custodi di un codice barbaricino ancora talvolta messo in pratica, che, un tempo, sono diventati occasionalmente banditi irradiando fino al Supramonte. Amministratori e cittadini che si oppongono alla costituzione di un Parco Nazionale del Gennargentu, apparentemente incuranti dello straordinario patrimonio naturalistico che costituisce, o, forse, sicuri di saperlo conservare meglio di tutti. Unico caso in Italia di protezione della natura per cui erano stati stanziati fondi e scritte regole e che non si è mai realizzato: nessun vincolo sul territorio che appartiene agli avi. Solo il codice. Uomini e donne di questo millennio, però, orgogliosi e gelosi della loro condizione marginale, che ancora preparano i prosciutti in casa e sanno come si fa il formaggio, che bevono acque di fonte e che hanno l’aspettativa di vita più lunga al mondo, più dei giapponesi e, qui a Seulo, anche più degli altri sardi di questa che è la “Blue Zone” d’Italia, la regione dei centenari.
Osservando la zia Dina che prepara i “culurgiones” (specie di ravioli con ripieno di pecorino), affetto un prosciutto di spalla apparentemente secco, ma inaspettatamente ricco di grasso, mentre lo spezzato di cinghiale cuoce in bianco nella padella. Lo metto vicino al pecorino e verso nei bicchieri il Cannonau, un vino nero e robusto che altrove servirebbe solo a tagliarne altri e che qui viene bevuto puro. Se questa è la dieta, è solo questione di genetica, verrebbe da pensare, e non a caso questi sardi sono studiati a livello internazionale ed esiste una “banca” del loro patrimonio genetico appetita da tutto il mondo. Aria incontaminata, acqua di sorgente, calorie consumate con parsimonia, e comunque bruciate in lunghe camminate in montagna in mezzo ai boschi, nessun traffico, poco stress, albe e tramonti incredibili. Lo stile di vita conta. L’isolamento anche. Esattamente come accade in altre regioni marginali del pianeta.
L’abbacadora
Ma forse il segreto sta anche nel continuo e paziente esercizio di memoria che gli abitanti di questi paesi fanno, tramandando usi e storie. Come quella dell’«accabadora», la misteriosa donna (studiata da Dolores Turchi e romanzata da Michela Murgia) che compare all’improvviso nelle notti di tormento, quando qualcuno è ammalato da tempo e non ha più speranza di guarire e diventa un peso insostenibile per le famiglie. Allora interviene lei, spesso l’ostetrica del posto, colei che ha aiutato a mettere al mondo, che solleva dolcemente il capo del moribondo e lo lascia cadere di colpo su un modellino di aratro, di legno di ulivo, spezzandogli il collo. Senza prendere nulla in cambio sparisce come è arrivata, col suo carico di dolore. Episodi al limite della leggenda che si tramandano fino al dopoguerra, eco degli arcaici geronticidi di società tradizionali aspre e chiuse. Qui c’è quanto resta del mondo passato del primo continente, anche nelle feste tradizionali e nei balli, per non dire della lingua di ceppo incerto.
Oggi non è più quel tempo e i centri abitati barbaricini si confrontano necessariamente con un futuro apparentemente difficile: quando si contano meno di mille abitanti è complicato darsi una prospettiva. Qui ci provano puntando su un “bollino blu” di qualità della vita che sta nei luoghi e nelle persone. Visitatori di qualità, non solo turisti. Anche perché non ci sono particolari bellezze architettoniche o monumenti, anzi, i paesotti si assomigliano un po’ tutti. Ma la regione è fortemente identitaria e il territorio meraviglioso e inaspettato. Solo qui si può avere un’idea di quelle società tradizionali che ci parlano del mondo fino a ieri. E dalle quali si impara parecchio. Da questo punto di vista la Barbagia è, mutatis mutandis, come le regioni estreme del sudest asiatico, un territorio quasi vergine abitato da persone orgogliose che se la sono sempre cavata da sole. D’inverno, negli scantinati delle case, si attendono i giorni più freddi per appendere i maiali appena macellati e lavorarli. La neve spolvera di bianco un paesaggio che non ha nulla a che fare con il presepe e che è quasi intatto. Qualche volta, alla sera dei giorni di festa, si improvvisa cantando a tenore. È facile dimenticarsi di tutto il resto e isolarsi felici.