il Giornale, 3 gennaio 2018
Gli 80 anni di Adriano Celentano
Quindi Adriano Celentano compie ottant’anni e ne stiamo parlando esattamente come quando ne aveva venti. Un innovatore tradizionalista. Sei gennaio 1938, via Cristoforo Gluck 14 a Milano: nasce Adriano, figlio di Leontino e Giuditta, foggiani passati dal Piemonte. Dopo la quinta elementare ha fatto di tutto, anche l’orologiaio in via Correnti, prima di essere folgorato sulla via di Bill Haley e di Rock around the clock e di diventare un artista che come pochi ha diviso l’opinione pubblica ma come nessuno ha segnato lo spirito del tempo.
Dopo la sua apparizione al Primo Festival del Rock’n’Roll e delle Danze Jazz nel 1957 al Palazzo del Ghiaccio a Milano, Giorgio Bocca stroncò sul Corriere della Sera la voglia di importare mode dall’estero e quell’articolo è diventato una fotocopia per le migliaia di critiche che hanno accompagnato l’allora Molleggiato fino a oggi.
Però, sessant’anni dopo, dici Celentano e dici musica italiana qui e nel mondo (150 milioni di copie vendute a ogni latitudine) con un impatto culturale che nessuno, da solo, è riuscito a raggiungere. Ce l’hanno fatta la scuola genovese di Paoli e De André, i cantautori, Battisti e Mogol e poi altri, ma un artista singolo non ha mai avuto la forza di capovolgere tutto restando sempre fedele a se stesso e alle proprie incoerenze. Nel 1962 cantò il suo primo testo «religioso» (Pregherò, versione italiana di Stand by me, firmato da Ricky Gianco e Don Backy) e 55 anni dopo, ossia un mese fa, sul Corriere della Sera è intervenuto sulla frase «sbagliata» del Padre Nostro.
In tutto questo tempo Adriano Celentano ha vinto pochi Festival di Sanremo (solo uno in coppia con la moglie Claudia Mori nel 1970 per Chi non lavora non fa l’amore) ma ha fatto tutto il resto, compresa la «quasi» invenzione del rap con Prisencolinensinainciusol che non a caso entrò in classifica prima negli States che nella manierata Italia. Ha pubblicato i dischi più venduti della nostra storia, ad esempio Il Mina Celentano del 1998 o Io non so parlar d’amore dell’anno successivo. Ha partecipato a 40 film, qualcuno bello (Yuppi du del 1975) qualcuno quasi inguardabile (Jackpot del 1992, non a caso poi non ne ha più fatti), vinto due David di Donatello, creato maschere e personaggi della commedia italiana.
È anche, come fu Paul Newman ad esempio, uno degli uomini di spettacolo del mondo con il matrimonio più longevo: cinquantatré anni e rotti con Claudia Mori, sposata alle tre di notte per sviare i fotografi e tuttora al suo fianco, instancabile. Dopotutto Celentano è abituato ai record. Da quando è apparso per la prima volta al Musichiere del 1959, è stato protagonista di alcuni dei one man show più seguiti della nostra storia televisiva. Più seguiti e più commentati. E non c’è mica solo quel Fantastico 8 del 1987 con il celeberrimo «La caccia e contro l’amore» scritto sulla lavagna con tanto di errore grammaticale proprio alla vigilia del referendum sulla caccia. Ci sono il Francamente me ne infischio, le 125 milioni di caz..te, il Rock Politik di «rock e lento» e La situazione di mia sorella non è buona, tutti record di ascolti su Raiuno, paginate sui giornali, diluvi di commenti.
In (necessariamente) poche parole, una carriera che non ha bisogno di enfasi. Celentano c’è riuscito perché ha destrutturato qualsiasi forma tradizionale di linguaggio artistico. È attore quando canta, è cantante quando recita. E quando fa il guru, quando cioè inizia a esternare sui propri capisaldi (religione, politica, ambiente), passeggia su quella sottile linea rossa tra buon senso e nonsense che lo rende un bersaglio facilissimo, quindi un collettore di attenzioni. In sostanza, fa spettacolo anche quando non vorrebbe. Non è un opinion leader, ma «soltanto» un leader inimitabile quindi solitario, un «unicum» nella storia italiana che ha reso universale una cifra assolutamente personale e talvolta quasi borderline.
Perciò ora che compie ottant’anni (ed è in classifica con Eva cantata insieme con Mina) non li celebra come un vecchio arnese seduto sui propri allori ma come il simbolo (molto) vivente di un talento trasversale e famelico che è riuscito a metabolizzare i passi falsi e scrollarseli di dosso. Magari con un po’ di attesa. Magari inciampando in qualche polemica e nelle solite risatine. Ma trovatene un altro che sia stato mattatore in così tante pagine del nostro spettacolo (e del nostro costume) senza essersi quasi mai ripetuto, e restando originale anche nei passi falsi. Giù il cappello.