la Repubblica, 3 gennaio 2018
Benjamin, il millennial che ama il latino
In un articolo pubblicato sul Financial Times e divenuto immediatamente virale, cioè condiviso da migliaia di persone, Benjamin Auslin – studente presso la Montgomery Blair High School in Maryland – ha tessuto un’inattesa lode dell’insegnamento del latino nella scuola americana. Lode inattesa sia perché il FT non è la rivista Latinitas, sia perché il medesimo Benjamin, evidentemente amato dal giornale della City, l’anno scorso vi aveva pubblicato un altro articolo in cui lamentava che in America la scuola superiore non dà spazio all’insegnamento delle materie economiche. Benjamin, dunque, non ha l’aria di uno di quegli studenti ciecamente votati agli studi umanistici. Quali sono gli argomenti portati da Benjamin? Innanzi tutto quelli formulati da uno studente che (lo dice lui stesso) si è iscritto al corso di latino per un errore nella compilazione dei moduli – ma è stato un happy mistake, aggiunge subito, parafrasando il felix culpa di Sant’Agostino non saprei quanto consapevolmente. A parere di Benjamin, infatti, lo studio del latino giova molto a migliorare il possesso della lingua e a potenziare le capacità intellettuali. Questo per due motivi: in primo luogo perché, essendo una lingua flessiva, il latino costringe a smontare e rimontare ciascuna parola all’interno della frase, per comprenderne la specifica funzione sintattica. Pratica che costituisce già di per sé un utilissimo esercizio mentale. In secondo luogo, perché i grandi prosatori latini, da Cesare a Cicerone, usavano comporre secondo le regole della retorica, mettendo cioè il massimo impegno nel rendere ricco, articolato, sfumato e soprattutto persuasivo il proprio discorso.
Ragion per cui traducendo i testi classici, o anche solo leggendoli in traduzione, le proprie capacità discorsive se ne avvantaggiano moltissimo. Almeno in apparenza si tratta di argomenti non nuovi, che un po’ tutti i fautori del latino hanno usato o usano per difenderne l’insegnamento scolastico. Essi però riacquistano tutto il loro peso se solo li si misura sul backdrop che lo stesso Benjamin suscita davanti ai nostri occhi: ossia le forme di comunicazione che i social media, gli sms, Whatsapp e così via hanno reso oggi pervasive, dominate come sono da frasi smozzicate, frammenti di idee, emoji, hashtag, e così via, senza più alcuna preoccupazione di costruire ragionamenti o argomentazioni che abbiano una qualche complessità. La mia generazione, dice Benjamin, parla ormai un “dialetto inglese” nato su internet, che si degrada di tweet in tweet; e ancora: immaginate che il genere di “dialogo” politico, cui abbiamo assistito durante la campagna elettorale del 2016, diventasse la norma per i prossimi dieci anni – quando toccherà alla mia generazione prendere in mano le leve del potere, sarà quello l’unico linguaggio che useremo. Coloro che avranno permesso al discorso social di invadere il dibattito politico (rendendolo il meno civile possibile), raccoglieranno quello che avranno seminato. Si tratta di un tipo dibattito in cui, quando va bene, a dominare è il semplicismo delle polarità, con strutture binarie del tipo “mi piace” “non mi piace”. A tale proposito, si potrebbe aggiungere che questo infausto genere di polarità si affaccia ormai anche in contesti che dovrebbero esserne immuni.
Dopo che alla radio è stato trasmesso un concerto di Mozart, per esempio, può accadere che il povero conduttore sia costretto a leggere lo sms di Peppino da Udine che dice «il pianoforte non mi è piaciuto». Cosa che almeno in me provoca non solo una reazione del tipo «che me ne importa»; ma anche una riflessione sconsolata, al pensiero che Peppino da Udine ormai crede che, quando si tratta di dare un giudizio, basta dire “mi piace” / “non mi piace”, senza sforzarsi di argomentare perché.
Lo spunto più interessante, però, offerto dalle riflessioni di Benjamin, sta per me in questa frase: «Leggete i classici e vi scoprirete un lascito letterario la cui ricchezza farà apparire la maggior parte dei twitter feeds altrettante pitture da caverna preistorica». Benjamin ha ragione, la complessità delle nostre forme comunicative sta regredendo paurosamente a qualche migliaio di anni fa. I nostri emoji non somigliano forse a quelle figurine incise o dipinte con cui i nostri remoti antenati cercavano di comunicare non si sa bene che cosa? Per questo non dobbiamo assolutamente permettere che la nostra scuola, e le nostre istituzioni culturali in genere, si arrendano alla pittografia o alla twittografia dilagante. È questa la battaglia da vincere, o almeno da combattere: una battaglia in cui anche il latino, con il suo bagaglio intellettuale e culturale, può svolgere un ruolo fondamentale.
Come dice Benjamin.