Corriere della Sera, 3 gennaio 2018
L’ultima trovata: mummie Inca contro l’antidoping
Sacrificati alle divinità Inca 700 anni fa, tre giovani argentini saranno presto riesumati nel ruolo di testimoni chiave nella causa intentata contro la Fifa dal calciatore peruviano Paolo Guerrero (alias El Barbaro) al Tribunale Arbitrale dello Sport di Losanna. Il prossimo febbraio i corpi mummificati dei tre verranno (metaforicamente) esibiti in aula dai principi del foro sudamericano Bichara & Motta (tra i loro clienti anche Neymar) per dimostrare che Guerrero, positivo dopo il match con l’Argentina il 5 ottobre scorso, non merita nemmeno uno dei 180 giorni di squalifica affibbiatigli dalla federazione, che pure ha già dimezzato la sanzione iniziale in appello.
Cosa dichiareranno le mummie in aula? Che nei loro resti un gruppo di archeologi della Lousiana State University ha trovato benzoilecgonina, lo stesso metabolita della cocaina che ha inguaiato Guerrero. «La scoperta – spiegheranno grossomodo i legali – dimostra che la coca resta nell’organismo per tempi lunghissimi, che Guerrero non l’ha necessariamente assunta prima del match e che il suo doping non può essere considerato “in competizione”, elemento indispensabile secondo il Codice Antidoping per comminare una squalifica».
Difficile immaginare come la prenderanno gli arbitri elvetici, ma la cocaina (100 positività l’anno, numero in costante crescita) è la sostanza dopante più diffusa al mondo e con le tesi difensive più strampalate. Dalle caramelle colombiane della zia Giacinta del ciclista Simoni (assolto) ai baci «avvelenati» del saltatore con l’asta Barber (assolto) e del tennista Gasquet (assolto) alla sigaretta «contaminata» del giocatore di pallamano Stanic (due anni). «Nei casi di positività alla cocaina – spiega l’avvocato dello sport Antoine Duval – la linea difensiva che paga meno è l’onestà. Anche le motivazioni più strambe servono se, come nel caso Gasquet, dietro all’atleta c’è un’armata di avvocati». Con mummie al seguito, se serve.