Corriere della Sera, 3 gennaio 2018
La scalata di Ripple, l’anti Bitcoin. Ecco perché ora piace alle banche
In origine fu il Bitcoin. Poi vennero le altre, come il Ripple. Il panorama delle cosiddette criptovalute è molto vasto a discapito della fama del loro fratello maggiore nato nel 2009. Lo dimostra anche l’esperimento del presidente del Venezuela Nicolás Maduro che, con un Paese sull’orlo di una guerra civile e ormai portato al dissesto economico dal fallimento del chavismo, ha voluto un «bitcoin» non solo di Stato ma comunista: il Petro, incolore tentativo di bloccare la deriva del bolivar, la moneta svalutata dal quadro politico e finanziario del Paese sudamericano.
Diverso è il caso del Ripple (che si è rivalutata del 36.018%) che – con circa 85 miliardi di dollari di controvalore in circolazione è a circa un quarto del montante dei Bitcoin pari a oltre 320 miliardi – è una delle criptovalute più promettenti a valutare dagli ultimi mesi: solo prima di Natale valeva 29 miliardi. In realtà se il fine è lo stesso (decentralizzare le informazioni), il Ripple è molto diverso. Prima di tutto ha un indirizzo preciso: è una società californiana, una start up della onnipresente, almeno su questi temi, San Francisco, che ha raccolto diverse decine di milioni di investimenti anche dalle banche come il Santander. Per questo lo possiamo definire il Bitcoin che piace alle banche. In sostanza si tratta di un protocollo che permette di avere un «libro mastro» delle operazioni decentralizzato ma comunque certificato da alcuni grandi nodi della Rete, come gli operatori telefonici o le istituzioni accademiche (nella fattispecie il Mit di Boston). Questo spiega perché piace alle banche: non nasce come strumento anonimo e «rivoluzionario» come il Bitcoin, il cui fine è sfuggire a qualunque autorità monetaria, almeno nelle ambizioni iniziali. Ma permette allo stesso modo della blockchain, la tecnologia alla base del Bitcoin, di non dover gestire un costosissimo bunker centrale per difendere le informazioni come fanno oggi le banche, le società delle carte di credito come Visa, MasterCard e Amex, e anche le «nuove» realtà come PayPal. Il modello di difesa è quello del deposito di Zio Paperone: dollari dentro, mura e filo spinato fuori. Con le criptovalute le informazioni sono invece spezzettate in periferia, condivise eppure sicure (in sostanza il costo per modificare tutti i nodi informativi periferici è così alto da rendere inutile e infruttuosa l’operazione). In realtà la corsa del Ripple ne svela anche la fragilità: come il Bitcoin è facilmente preda della speculazione finanziaria (spostare un mercato da 70 miliardi è un’operazione non facile ma fattibile per i grandi operatori delle Borse). Le salite e il crollo sono da cardiopalma: facile guadagnare, facilissimo perdere, soprattutto per i pesci piccoli. Come ripete Jordan Belfort, il vero the Wolf of Wall Street portato sul grande schermo da Di Caprio-Scorsese, «quando lo leggete sul Wsj è troppo tardi». Per adesso il destino di queste monete è quello di essere delle non-monete. Secondo la definizione canonica le valute servono come strumento di scambio, per definire il valore dei prodotti e dei servizi e per trasferire il potere di acquisto nel tempo. In parole povere fino a quando non entreranno nella vita quotidiana come ha tentato di fare il Bitcoin, non riuscendoci, le criptovalute saranno poco più che investimenti per chi ama l’adrenalina e anche l’eccitazione del gioco (non esistono motivi validi per giustificare questi salti quantici del valore se non applicando la teoria dei beni rifugio come l’oro). Eppure dal punto di vista tecnologico rimane la portata rivoluzionaria che ne fa l’Internet della finanza.