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 2018  gennaio 03 Mercoledì calendario

La siccità porta via i bambini. Nel Paese senza piogge da 3 anni

«La siccità manda uccelli neri ad artigliare i bambini. Ci addormentiamo vicini, sperando al risveglio di ritrovarli». È raro, in un posto dove la gente ha perso tutto, essere accolti da una poesia. Hawa Ali Saleban è una donna minuta che cammina sotto il sole. Mentre declama i suoi versi tiene per mano una bambina vestita di rosso. Amina, 3 anni e mezzo, è una delle sue cinque figlie, a cui si aggiungono tre maschi. Hawa ha ereditato il suo ruolo di cantastorie dal padre. E adesso è la poetessa di Urgusan, nel villaggio di fortuna che ospita 200 famiglie di sfollati. Non li ha riuniti una guerra, ma la siccità. Tutti qui sono, anzi erano, pastori. Hanno perso il bestiame perché in pratica sono tre anni che non piove. «Le prime a morire sono state le pecore, poi le capre. Infine i cammelli, che sono i più resistenti alla sete» dicono gli uomini. «Un cammello può restare anche 30 giorni senza bere, ma poi gli devi dare un barile e mezzo di acqua». E quando muoiono i cammelli, vuole dire che la siccità è davvero dura. Luigi Baldelli ha appena fotografato un mosaico di ossa bianche sparse nella boscaglia. In teoria, saremmo alla fine della stagione delle piogge, ma tutto è secco. Non un filo d’erba. Per questo, dalle colline intorno, le famiglie nomadi si sono ritrovate vicino al centro abitato. Sono arrivate a piedi, portandosi dietro soltanto i figli, lasciando le loro «vere» capanne perché non c’erano animali per trasportarle. Qui arrivano di tanto in tanto i camion cisterna e i kit di sopravvivenza messi in campo da Oxfam. Sono le donne che hanno costruito questi rifugi fatti di teli, panni, arbusti. Ogni sera Hawa raccoglie il suo gregge di bambini malnutriti sotto due tende. Non ci sono materassi per terra ma sacchetti vuoti di juta. Non ci sono coperte, ma tanti corpi vicini per provare a scaldare le notti. Sperando che gli uccelli neri non si portino via qualcuno. 
È raro, in un posto dove la gente ha perso tutto, che ancora attecchisca accanto alla poesia la democrazia. Ma questo è il Somaliland, un angolo di Corno d’Africa che offre sorprese. «Il Paese più democratico dell’Africa Orientale», lo definisce l’ Economist. Un Paese che sulla carta non esiste. Ex colonia britannica, dal 1991 nessuno ha riconosciuto la sua indipendenza, il suo distacco dalla vicina Somalia (ex colonia italiana). In una sorta di limbo diplomatico, mentre Mogadiscio piombava nella guerra civile (e ci restava), Hargheisa si è risollevata dagli orrori del passato. L’avevano ribattezzata la Dresda d’Africa: trent’anni fa, una città rasa al suolo dai bombardamenti del dittatore Siad Barre. Non sono rimasti monumenti, nella vivace capitale di questo Stato inesistente. Solo un piccolo, vecchio Mig dell’aviazione nemica, a ricordare le radici di un popolo risorto dal conflitto. Il neopresidente è un ex pilota che decise di non colpire la sua gente. Muse Bihi Abdi è stato eletto lo scorso novembre. È il quinto di una breve storia, in un continente che pullula di leader a vita. Anche il Somaliland soffre di pecche endemiche, come la corruzione. Ma rimane un’oasi, se paragonata ai Paesi vicini. Jama Musse Jama, intellettuale con mezzo cuore ad Hargheisa e mezzo in Italia, ricorda una storia che qui sembra scontata (e per certi versi spuntata): quella di un Paese che per tentare di farsi riconoscere ha voluto rinnovare nel tempo una patente di democrazia. Elezioni abbastanza trasparenti e ricambio al vertice, grazie anche al mantenimento di organismi tradizionali come la Guurti, l’assemblea degli anziani che rappresenta la struttura clanica e fa da bilanciere al Parlamento uscito dalle urne. Se il Somaliland fosse stato riconosciuto, la comunità internazionale gli avrebbe imposto – in cambio di aiuti – un formato elettorale standard, «occidentale», che probabilmente avrebbe contribuito a rendere Hargheisa più simile a Mogadiscio.
Urne e cammelli: il Somaliland è una terra di pastori. Per tradizione ed economia, la sua ricchezza sta nel bestiame. Quattro milioni di capi sono esportati all’estero, soprattutto nei Paesi arabi. Buona parte delle pecore e delle capre che vengono sacrificate durante l’ultima tappa del pellegrinaggio alla Mecca vengono da queste parti. Ma la triplice siccità ha ucciso il 70% degli animali. È una lunga emergenza, visto che la mancanza di piogge si ripete ogni anno.
Il lago artificiale di Dhinbiriyale dovrebbe essere pieno e invece è asciutto. Siamo a 70 km dalla capitale, verso il confine con l’Etiopia. Musse Hussein indica con il bastone la linea dell’acqua che non c’è, lungo la «diga di terra» ormai vuota. Hussein ha visto molte siccità nei suoi 101 anni di vita, «ma questa è la peggiore». In passato, «alcuni animali sopravvivevano e si poteva ricominciare. Adesso no». Nel villaggio, ActionAid ha collaborato per la creazione di berkhet, vasche coperte dove si raccoglie l’acqua piovana. In questa stagione delle non-piogge ha piovuto una volta sola, per tre ore. In molti luoghi i pozzi non sono una soluzione, perché l’acqua della falda è troppo salata. Hussein racconta di due suoi nipoti che sono in Libia, dopo aver intrapreso il viaggio verso «la verde Europa». La scorta militare è qui a ricordarci che per i figli della siccità il richiamo dei miliziani di Al Shabab non è lontano. «Aiutateci», dice Hussein. Prima di chiedere allo straniero se sa come si uccide un cammello, con un preciso fendente al collo.