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 2018  gennaio 03 Mercoledì calendario

Il potere degli ayatollah vulnerabile come l’Urss

Ronald Reagan sconvolse l’élite di Washington e spaventò i leader europei rifiutandosi di coesistere con l’Unione Sovietica.
e visse abbastanza da vederne il precipitoso declino e collasso. Esiste una buona probabilità che anche Donald Trump, che ha sfidato Obama e i leader europei rifiutandosi di coesistere con l’impero iraniano degli ayatollah, abbia la soddisfazione di vedere la dissoluzione di un regime con il quale Obama, insieme a tanti altri, preferì essere più accomodante.
Non sappiamo se le massicce manifestazioni di questi giorni si diffonderanno, né se una seconda rivoluzione sia ormai imminente, ma in ogni caso i numeri dell’Iran non tornano, e un collasso è fisicamente inevitabile. Con circa 80 milioni di abitanti, e le esportazioni composte all’80 per cento dal petrolio, per far quadrare i conti l’Iran dovrebbe esportare circa 25 milioni di barili al giorno. Riesce però a esportarne appena 2,5 milioni. Sarebbe più che sufficiente per Paesi come Abu Dhabi, con meno di 800 mila abitanti, ma per l’Iran, con una popolazione più di 100 volte numerosa, è una miseria: non riesce a raggiungere nemmeno la soglia del reddito pro-capite di 6 mila dollari del Botswana.
La destinazione più alla moda per i safari è un Paese bello e ben governato, lontano dalla povertà per i parametri africani, e i suoi cittadini non devono pagare il prezzo della manutenzione degli imponenti impianti nucleari, destinati a produrre una vastissima gamma di armi, dalle più compatte ai missili balistici. Perfino ora che queste strutture vengono conservate in uno stato semicongelato, ogni giorno l’Iran importa costosi strumenti per la loro manutenzione, acquistati per esempio dalla Corea del Sud, nostro prezioso alleato. Il Botswana poi non organizza spedizioni militari su larga scala in aiuto a un dittatore straniero impegnato in una guerra contro l’80 per cento della propria popolazione, né provvede a generosi finanziamenti della più grande organizzazione terroristica al mondo, gli Hezbollah, che non riescono a pagare le centinaia di migliaia di salari che erogano soltanto con il traffico di droga e il racket che impongono alla popolazione.
Gli ayatollah invece lo fanno, e perciò gli iraniani in realtà sono molto più poveri di quanto il loro reddito pro-capite di 6 mila dollari, da Botswana, potrebbe far pensare. Risulta difficile crederlo guardando le fotografie di Teheran, un’altra capitale rutilante che ingrassa accaparrandosi profitti petroliferi, ma di recente, guidando attraverso le zone rurali dell’Iran, considerate tra le più prospere, ho visto con i miei occhi la povertà del Paese. In un mercatino improvvisato accanto all’area di sosta dei camion degli uomini adulti vendevano anatre. Ciascuno ne aveva tre o quattro, e sembrava che non avessero altro da offrire.
Questo è quello che succede in un’economia il cui Pil si assesta sotto i 6 mila dollari di reddito pro-capite: produttività e redditi bassissimi. Perfino i circa 500 mila iraniani impiegati nell’industria automobilistica nazionale non sono abbastanza produttivi da costruire auto concorrenziali da vendere all’estero: il secondo prodotto più esportato del Paese, dopo il petrolio e i suoi derivati, sono i pistacchi. Che ci portano direttamente al secondo problema dell’Iran, dopo quello dell’insufficiente quantità di petrolio: le ruberie degli ayatollah, incluso l’accaparratore delle coltivazioni di pistacchi, Akbar Hashemi «Rafsanjani», ex presidente e per decenni figura di spicco del regime. Non ha peccato di poca modestia aggiungendo al suo nome quello della sua provincia natale Rafsanjan, perché ormai ne possiede la maggior parte, dopo essersi appropriato di enormi distese di coltivazioni di pistacchi.
Suo figlio Mehdi Hashemi, un personaggio di spicco tra gli aghazadeh (i «nobili nati»), i figli e le figlie dei potenti, preferisce una ricchezza di origine industriale, e il suo nome compare nei processi per corruzione a carico di altre persone (uno si è tenuto in Francia). Ha anche avuto un processo a suo carico, per una miseria di un centinaio di milioni, mentre il clan dei Rafsanjani si è preso almeno un paio di miliardi di dollari.
Non si ha notizia di ruberie commesse dal leader supremo Khamenei – del resto, dispone di palazzi ufficiali – ma il suo secondo figlio Mojtaba pare aver attinto dal mucchio ben due miliardi, il terzo figlio Massoud cerca di sbarcare il lunario con 400-500 milioni, il minore, Maitham, non è certo povero con 200 milioni, e le figlie Bushra e Huda hanno ricevuto come dote di fatto qualcosa come 100 milioni a testa. Una dimostrazione del fatto che il regime è guidato da uomini davvero dediti alla famiglia, che accudiscono con amore i loro numerosi figli. Questo però decurta ulteriormente il teorico reddito di 6 mila dollari a testa, perché alcune «teste» iraniane prendono mille volte più degli altri.
Questo è uno dei motivi dietro agli scontri che vediamo oggi: l’amarezza e la rabbia per la corruzione del regime, che impoverisce la popolazione, e che va lontano, ben oltre i figli dei potenti più altolocati: migliaia di religiosi non nascondono la loro ricchezza, a cominciare dalle loro vesti di Tasmania griffate, tremila euro ad abito. Buona parte dell’economia iraniana è in mano alle bonyad, fondazioni islamiche che erogano modeste pensioni alle vedove di guerra e altri indigenti, e grosse somme ai propri amministratori, soprattutto membri del clero e i loro parenti. La più grande di queste fondazioni, la Mostazafan Bonyad, conta più di 200 mila dipendenti distribuiti tra 350 società di ogni settore, dall’agricoltura al turismo, ed è un datore di lavoro molto generoso per orde di amministratori religiosi. È per questo che la folla oggi urla insulti al clero: non tutti i suoi membri sono corrotti, ma i religiosi con un tenore di vita molto alto sono abbastanza diffusi da incidere pesantemente sui famosi 6 mila dollari che in teoria gli iraniani hanno come reddito pro-capite.
Il motivo principale che provoca la rabbia popolare sono però indubbiamente i pasdaran, le Guardie della rivoluzione islamica, che costano all’Iran molto più di qualche centinaio di aghazadeh, o qualche decina di migliaia di religiosi benestanti. Sono costati innanzitutto migliaia di miliardi di dollari in sanzioni contro il nucleare, provocate dai Pasdaran e abolite dall’amministrazione di Obama. Continuano a costare miliardi, persi dall’Iran ogni anno a causa delle sanzioni sui missili balistici che Trump non revocherà mai. In più, ci sono i costi variabili delle avventure imperiali dei pasdaran, e quelli fissi delle loro industrie militari, che spendono parecchio sia per le armi convenzionali che per i fiammanti caccia invisibili «stealth» e i sottomarini modernissimi, che però restano in realtà invenzioni della propaganda.
Il militarismo e le avventure imperiali dei pasdaran sono lussi che l’Iran non si può permettere, e i manifestanti non nascondono di volerne fare a meno gridando «no Gaza, no Siria». Comunque vada a finire – se le manifestazioni verranno represse brutalmente, perlomeno stavolta la Casa Bianca non se ne sarà resa complice – i numeri dell’impero degli ayatollah non tornano e non gli permettono di andare avanti come prima, non più di quanto tornassero per l’Urss che non poteva continuare a mantenersi con il petrolio.