La Stampa, 3 gennaio 2018
Ceti impoveriti e minoranze etniche. L’alleanza che fa tremare il regime
Uno spettro si aggira nelle stanze del potere di Teheran ed è quello della sollevazione delle minoranze. La crisi economica è stata senza dubbio l’innesco delle proteste: come mostrano i filmati in rete, la maggior parte dei manifestanti sembra appartenere ai ceti più deboli, salariati, pensionati indeboliti da inflazione e tagli ai sussidi, e alle regioni più arretrate, mentre nella più ricca capitale la rivolta è stata limitata. Ma è anche la geografia delle proteste a preoccupare. Perché la Repubblica islamica resta «persiana» quanto lo era l’impero dello scià Reza Pahlavi, ma i persiani sono ora poco più della metà degli 80 milioni di abitanti, in mezzo a decine di altre etnie. E sono state le città periferiche dominate dalle minoranze a trainare finora il movimento anti-ayatollah, una delle maggiori differenze rispetto all’Onda verde del 2009.
Per il regime si tratta di una sfida insidiosa. I persiani sono fra il 50 e il 55% della popolazione. La più grossa minoranza è quella azera, almeno il 16%, tanto che ci sono più azeri (un’etnia turca) in Iran che in Azerbaigian. Seguono i curdi, fra il 7 e il 10% degli abitanti, poi i lur, circa il 7%, i gilakis, un altro 7%, gli arabi circa il 3%, i turkmeni, 2%, i beluci, dall’1 al 2%. Anche se si è distanziata dalla politica di brutale assimilazione condotta dallo scià, la Repubblica islamica considera una priorità strategica il mantenimento dell’unità del Paese. I vertici militari sono convinti che i nemici strategici, Stati Uniti, Arabia Saudita e Israele, cercheranno di sfruttare in ogni modo questo punto debole.
La convinzione è stata suffragata dalla pubblicazione nel 2006 di una «Nuova mappa del Medio Oriente», ideata dal colonnello americano Ralph Peters, che mostrava un Iran spezzettato secondo le principali regioni etniche. Una carta teorica che ora viene ricalcata in qualche modo dalla mappa delle proteste. Gli scontri più duri, con più vittime, sono avvenuti in città con forti minoranze azere, come Rasht, in quelle abitate da curdi come Kermanshah nel Kurdistan e Mashhad nel Khorasan, oppure nel Lurestan, a Khorramabad e Dorud, o ancora i centri arabi come Ahwaz o del Balochistan, come Zahedan. Sono anche regioni più arretrate, specie il Lurestan, rispetto a Teheran e al «centro persiano» dell’Iran.
Il potere degli ayatollah deve fare i conti con decenni di discriminazioni. Anche se l’articolo 19 della Costituzione recita che «tutti i popoli dell’Iran, di qualsiasi gruppo etnico o tribù, godono di eguali diritti», la realtà è diversa.
Un rapporto di Amnesty International del 2014 denuncia come «i gruppi etnici» siano esposti a un «alto rischio di essere denunciati» con accuse di stampo religioso come quelle di «guerra a Dio», «corruzione sulla terra», che prevedono anche la pena di morte. La persecuzione etnica si unisce spesso a quella religiosa, soprattutto nei confronti dei curdi e degli arabi sunniti. Decine di curdi sono stati arrestati per «diffusione di propaganda anti-sistema», «appartenenza a gruppi salafiti». Anche i convertiti dall’islam sciita a quello sunnita soffrono di «persecuzioni crescenti”.
La “mappa etnica” delle proteste viene sottolineata anche da analisti attenti, come la storica irano-americana Frieda Afary, che però nota anche una composizione sociale diversa rispetto al movimento del 2009, con una forte presenza di operai e strati deboli della popolazione. Un movimento sotterraneo che «da quasi un anno ha condotto scioperi contro il mancato pagamento degli stipendi, le terribili condizioni di lavoro» e che poi è stata rafforzato «dai pensionati impoveriti dall’inflazione, insegnanti, infermieri, famiglie che anno perso tutti i risparmi nelle banche fallite» per le speculazioni dei religiosi.
Una «rivolta degli esclusi» confermata anche dalle osservazioni da Teheran della giornalista Sanam Shantyaei, che parla di «dimostranti a reddito basso, che non hanno nulla da perdere, che non hanno avuto voce fino a ora». Questa composizione preoccupa soprattutto i riformisti arrivati al potere con il presidente Hassan Rohani. La politica di riforme, tagli ai sussidi e austerity, studiata per attrarre investimenti stranieri e sfruttare la fine delle sanzioni dopo l’accordo sul nucleare del dicembre 2015, ha avuto conseguenze imprevedibili: la saldatura fra ceti impoveriti e minoranze emarginate rischia di essere fatale.