La Stampa, 3 gennaio 2018
Dedicato ai ragazzi
Sono giorni in cui si parla di ragazzi, soprattutto di ragazzi iraniani e di ragazzi italiani. I ragazzi iraniani sono entrati in una protesta dai confini ampi, confusi, in buona parte dominata da motivi economici, la disoccupazione, l’aumento dei prezzi. Anche i ragazzi italiani, a loro modo, sono a ruota di una protesta contro la classe politica che origina da una diffusa sensazione di povertà. I ragazzi iraniani sono scesi in piazza per chiedere diritti civili, di vestirsi come gli pare, di avere i libri che desiderano, di svincolarsi dalla sharia, la legge di Dio che annienta ogni scelta umana. I ragazzi italiani sono così sfiduciati o disillusi o forse banalmente disinteressati che il 70 per cento dei diciottenni non andrà a votare. I ragazzi iraniani – simboleggiati da una ragazza che si è tolta il velo e ha offerto i capelli sciolti – sono stati arrestati a centinaia, ma continuano a manifestare. I ragazzi italiani si lamentano dalle loro stanze da letto, scrivendo su Internet di tutto questo mondo che non va. I ragazzi iraniani salgono sulle barricate perché Internet gli è stato chiuso. I ragazzi italiani ripetono un pigro slogan secondo cui tanto con la politica non si cambia niente. I ragazzi iraniani vogliono un po’ di politica per cambiare qualcosa. I ragazzi italiani non hanno cura della libertà perché non sanno che significhi combattere per conquistarla, la danno per acquisita e ignorano che è il modo migliore per perderla. I ragazzi iraniani vanno in prigione perché l’hanno persa e combattono per riconquistarla.