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 2017  dicembre 30 Sabato calendario

Passeggiate romane, in mezzo allo sfacelo

Seguire il giovane Henry James nelle sue passeggiate italiane è il grande privilegio offertoci da In viaggio (Bompiani, 378 pagg., 15 euro). 
Il libro, che raccoglie nove anni di vagabondaggi, dal 1870 al 1879, da «turista sentimentale» (e com’è americana questa sprezzatura di definirsi turista, parola che la saccenteria europea ha trasformato in insulto) nei suoi ventuno pezzi offre scorci anche americani, inglesi, tedeschi, savoiardi, ma sono le pagine italiane quelle più vivide, perché James fu innamorato dell’Italia. Le sue cartoline d’epoca dimostrano che molti nostri vizi sono endemici. Per esempio la perdita di identità delle città storiche, calpestate da orde di stranieri. In «Roma fuori stagione» del 20 maggio 1873, già dalle prime righe sembra si parli dell’oggi: «Si potrebbe dire senza essere ingiusti che lo stato d’animo di molti stranieri a Roma è di profonda impazienza per l’attimo in cui tutti gli altri stranieri se ne saranno andati (…) Nei mesi invernali Roma è passata completamente nelle mani
di quei barbari, tanto che l’osservatore silenzioso trova sempre più difficile concentrare la sua attenzione». E ancora: «È la sensazione generale e opprimente che la città dell’anima sia divenuta, per il momento, una mostruosa combinazione di località termale e negozio di curiosità; che la sua vita più intensa sia quella dei turisti che tirano sul prezzo di false calcografie e che sbadigliano mentre visitano palazzi e templi». 
Il meglio, per James, sta nelle ville romane: «Ci sono pochissime altre cose da fare se non andare spesso a Villa Borghese e sedersi sull’erba (su un robusto scampolo di tessuto) a osservare il meraviglioso spettacolo (…) posare il capo fra gli anemoni ai piedi di un altissimo pino, con gli occhi rivolti verso la cima e verso il cielo seguendo la sua argentea colonna pendente». Segue un elenco di ville romane, alcune oggi estinte: la Doria, la Ludovisi, la Medici, la Albani, la Wolkonski, la Chigi, la Mellini, la Massimo, ma la prediletta resta la Borghese «aperta tutto il tempo a tutto il mondo, eppure mai affollata (…) vi si possono trovare ancora altri cento luoghi inviolati e angoli silenziosi, occupati, male che vada, da un gruppo di quelle giovani propagandiste dalle lunghe sottane, che incedono spigolose e solenni, ciascuna con un libro sotto il braccio, come le figure di un messale medioevale». O come Isabel Archer protagonista di Ritratto di signora, il romanzo più famoso di James, o l’altra sua eroina Daisy Miller. Il soggiorno romano si chiude con la protesta di una piccola folla che, a via del Corso, sotto le finestre dello scrittore, strepita: «Al Quirinale! Al Quirinale», ma tutto cessa dopo una piccola baruffa con i soldati del re. «A Roma, a maggio, ogni cosa ha un lato amabile, persino le sommosse!». 
Torino non gli piace: «Non possiede architettura, non possiede chiese, né monumenti, né soprattutto una pittoresca scenografia di strade», mentre Milano, «piuttosto l’ultima delle capitali del Nord che la prima del Sud» per via della «lunga occupazione austriaca che ha contribuito a germanizzarne la fisionomia», è due sole cose: il Duomo e L’ultima cena di Leonardo Da Vinci. Il primo viene stroncato così: «Spero, da parte mia, di non diventare mai troppo pignolo per poterlo apprezzare». Dentro, paga cinque franchi per vedere le «vizze spoglie mortali» di san Carlo Borromeo, che vengono impietosamente annesse al «grande capitale di cianfrusaglie, che riluce per tutta la cristianità in punti efficacemente distribuiti». E osserva sarcastico che la «maestà della chiesa» ha saputo rendere le esposizioni di tali reliquie «ridicole in modo sublime». 
Armato del «duplice scetticismo del turista e del protestante», l’Italia per James sta soprattutto nella sua luce, nei suoi cieli, nella sua natura dolce (da qui la predilezione per le ville e, soprattutto, la campagna romana) e nei dipinti dei grandi maestri veneti e toscani. La sua estetica è obiettiva e miscredente. Per lui, il Cenacolo vinciano non è interessante per il valore spirituale, ma per «l’ironia della sorte che ha spinto il più calcolatore degli artisti a impiegare quindici anni nella costruzione della sua bella casa sulle sabbie», alludendo alla nota fragilità (dovuta alle particolari tecniche impiegate da Leonardo) del dipinto. Nel lago di Como vede uno svago delizioso «per il turista americano poco sofisticato», e i suoi panorami, con «la presenza costante della melodiosa voce italiana», gli si rivelano essere gli stessi già visti all’Opera, riprodotti sulle scene. A Venezia spende le parole più appassionate per Torcello, che stimola il suo feticismo luministico e decadente: «È un perfetto bagno di luce (…) non v’è nulla da vedere se non la luce (…) È impossibile immaginare un’incarnazione più commovente di trascurato declino (…) eccola lì, un semplice vestigio marcescente, come un mucchio di ossa paterne scolorite dalle intemperie, lasciate empiamente senza sepoltura». In tutti i pezzi italiani, James alterna inni alla luce più fulgida a commosse contemplazioni dello sfacelo e della putrescenza. Un dualismo efficacemente riassunto da una specie epifania che ha, sempre a Torcello, davanti a un gruppo di bambini mendicanti, «nudi quasi come selvaggi»: «Erano i mocciosi più belli del mondo, ciascuno di loro era dotato di un paio d’occhi che pareva una specie di protesta della natura contro l’avarizia della fortuna».