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 2018  gennaio 02 Martedì calendario

Una giovane badessa e il vescovo lo scandalo che ispirò Stendhal

Di questa storia persino il luogo è scomparso: «Cumuli di rovine, colonne spezzate, capitelli e ricchi fregi mescolati a detriti informi, (…) soltanto l’ostinazione (…) avrebbe potuto spingere nel 1842 un viaggiatore a inerpicarsi su per il sentiero che correndo lungo una profonda gola cosparsa di ammassi di lava» arrivava fino a Castro, antico borgo della Maremma laziale distrutto nel 1649 dalle truppe pontificie in guerra contro i Farnese, duchi del posto. Ma, come racconta Lisa Roscioni in La badessa di Castro. Storia di uno scandalo (Il Mulino, pp. 250, € 20), l’autentico, inafferrabile fantasma di questa vicenda è la verità, ridotta a una vaga e inafferrabile ombra, perché ancora a distanza di quasi mezzo millennio nessuno è in grado di sapere che cosa è successo per davvero nell’inverno del 1572 fra il convento della Visitazione e il vescovado di quella città che non c’è più, fra i due protagonisti di questa storia, ombre sfuggenti nella clandestinità di un buio che nessuno mai riuscirà a squarciare.
Fra tutte, l’ombra più inafferrabile è quel bambino che nacque dalla relazione illecita tra la badessa Elena, al secolo Porzia Orsini, e il vescovo Francesco Cittadini: un bambino che non ha nome, che forse era un maschietto e che nessuno sa che fine abbia fatto, la cui sventurata madre morì di dolore poco dopo che glielo ebbero strappato via, appena nato.
Di questa storia così scabrosa tutto è vago ma non le parole: «Fiumi di parole, racconti, congetture, giustificazioni», intorno alla pretesa verità dei testimoni della vicenda, di chi trasmetteva i messaggi tra i due amanti lungo i miseri trecento passi di separazione tra il convento e il vescovado. Che chissà quante volte il vescovo aveva colmato per recarsi nella celletta di Elena e lì consumare, a volte «ignudi», a volte soltanto mezzo «ignudi», la loro illecita unione. Fiumi di parole nei monumentali atti di un processo del quale non c’è sentenza, perché forse mai ci fu o forse nessuno trovò il coraggio di esprimerla, fiumi di parole nei racconti spesi quando ormai Elena non c’era più e il vescovo era stato strategicamente spostato lontano, al Nord, in Lombardia.

La vicenda di Elena e Francesco divenne ben presto un mito letterario che ispirò tanti scrittori ma che per Stendhal sembra essere un’ossessione: l’autore francese se ne appassionò e studiò a lungo le carte prima di dare alle stampe L’abbesse de Castro (1839) romanzo breve uscito a puntate sulla Revue des deux mondes, e poi nella Certosa di Parma, pubblicato nello stesso anno.
Lisa Roscioni esplora questa storia prima attraverso la mole di documenti dell’epoca e poi nella non minore quantità di parole che ha ispirato. In fondo è una vicenda così semplice, a guardarla con un briciolo di empatia: una giovane nobile costretta dalle circostanze familiari a prendere i voti quando è ancora bambina si ritrova fra le braccia dell’unico uomo che ha occasione di incontrare, dietro le grate del convento e che nella fattispecie è pure il vescovo della città.

Ma come capita quasi sempre fu lei – vittima o carnefice? – a doversi immolare sull’altare del sacrificio, l’unico luogo capace di espiare una colpa che se non fosse stato per quel frutto sarebbe forse rimasta eternamente nell’ombra. Fu violenza o seduzione? Fu stupro (reiterato) o lascivia? Si sono amati per davvero, con disperazione ma anche un briciolo di felicità? Non lo sapremo mai e forse non lo sapevano nemmeno loro due, Elena e Francesco.
E se in tutte le testimonianze e persino nelle fortunate rielaborazioni questa vicenda così cupa e triste è fatta tutta di «verità provvisorie, fumi et odores, vacillazioni o trepidazioni capaci di indicare ipotesi da coltivare o direzioni da prendere», la nascita del bambino è uno spaccato di realtà scomoda e intollerabile, ma lampante. La intravediamo attraverso i documenti, quella verità innegabile, nelle doglie della partoriente, nelle corse affannate dei personaggi che le stanno intorno, nelle domande che tormentano tutti in quel momento. Per le quali tutti, ed Elena prima di tutti, hanno un’unica risposta: sarà lei a dover pagare. A esserne vittima fino in fondo: vittima della colpa di aver messo al mondo un figlio pur essendo monaca, di aver ceduto al vescovo, oppure di averlo sedotto. O di essere stata stuprata da lui.
Nessun saprà mai che cosa passò per la testa e il cuore di quella donna. Possiamo forse provare a immaginare lo strazio di dover dire addio a quel figlio appena intravisto. Ma sappiamo per certo che come al solito, lungo millenni di una storia di cui ancor oggi portiamo il peso, la condanna sarà quasi tutta soltanto per lei.