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 2017  dicembre 30 Sabato calendario

Quei ritratti di signore collezionati nelle stanze del potere

È davvero molto raro imbattersi in una stanza come quella che a Peterhof, residenza degli zar nei pressi di San Pietroburgo, contiene più di trecento ritratti di donne, dallo stesso formato, in gran parte da identificare con le cosiddette “teste di carattere” che nel 1762 erano rimaste nello studio del pittore veronese Pietro Rotari al momento della sua morte.
Acquistate da Caterina II, già nel 1764 furono collocate nell’ambiente dove si trovano tuttora, accogliendo il visitatore con una vertiginosa moltiplicazione di sguardi e di atteggiamenti, restituendo, più che fattezze individuate, una sofisticata varietà di espressioni femminili, colte nel trascorrere di momenti della giornata e della vita. Si tratta probabilmente dell’allestimento più completo e ambizioso di una serie di “belle”, parola che alla fine del Seicento definiva in maniera ormai codificata gli insiemi di ritratti femminili, raccolti e talvolta eseguiti con lo scopo di mostrare l’aspetto delle donne più celebri del periodo. Le “belle” di Rotari, nobile artista di corte trasferitosi da Dresda a San Pietroburgo fin dal 1756, non raffigurano in realtà le principesse, le fanciulle aristocratiche, le poetesse e le cantanti alle quali erano tradizionalmente riservati ritratti, o per lo meno in maniera non dichiarata e non omogenea; sembrano piuttosto effigi di donne senza nome e si trovano allo snodo di una tradizione in cui il “ritratto dell’animo” sotteso dalla descrizione fisica della persona, sia in letteratura che nelle arti figurative, si avvia a diventare il ritratto dello stato d’animo, immediato e mutevole.
Ma un assetto basato sulla presenza numerosa di ritratti doveva essere ben frequente nei palazzi aristocratici del Seicento: piccole gallerie o sale descritte negli inventari raccoglievano le immagini del proprietario e della sua famiglia, dei suoi antenati, dei parenti e di potenti della terra, la cui presenza rendeva visibile il prestigio sociale del padrone di casa conservando la memoria degli avi e celebrando la rete di rapporti politici che lo sosteneva.
Da tempo, già nelle grandi collezioni cinquecentesche, le serie dei ritratti avevano cominciato ad includere quelli di consanguinei illustri appartenenti ad altre dinastie e anche, allentando il legame strettamente parentale, quelli di re e regine dai quali si erano ricevuti benefici e protezione, in aggiunta alle immagini consuete dei sovrani regnanti, che includevano ovviamente il pontefice, il re di Spagna o per il re di Francia, con una maggiore frequenza di immagini a seconda della parte politica cui si faceva riferimento.
L’ampliarsi delle raccolte nel corso del Seicento e la specializzazione all’interno dei generi fa sì che intere stanze siano dedicate a ospitare ambiti sempre più precisi del ritratto, all’interno dei quali un successo straordinario accompagna le serie delle belle, una sorta di galleria di donne celebri contemporanee, che popolano le sale di casa Chigi, Colonna e Odescalchi nella seconda metà del secolo.
Jakob Ferdinand Voet, originario di Anversa e a Roma fino al 1678, fonda la sua fama di pittore ritrattista su quella celebre serie di ritratti femminili in parte ancora conservata nel palazzo Chigi di Ariccia, in anni recenti oggetto degli studi chiarificatori di Francesco Petrucci. I quadri che lo resero famoso ritraevano in realtà le donne più in vista dell’epoca, da Maria Mancini a sua sorella Ortensia a tutte le rappresentanti delle famiglie aristocratiche romane, in uno stesso formato, che le raffigurava un po’ meno che a mezzo busto, ma lasciando spazio alla descrizione di abiti, acconciature e gioielli sontuosi, quasi un conclusivo tributo al ruolo fondamentale da loro svolto in quella costante trama di strategie che portava all’affermazione di una famiglia sulla scena della corte pontificia, attraverso matrimoni, alleanze, concessioni di favori.
La raffigurazione di questo Olimpo di potenti in seducenti abiti alla moda spesso dalle scollature ampie, la confidenza che il pittore dovette stabilire con le ritrattate, la libertà eccessiva nell’utilizzarle anche per immagini di discinte dee e eroine antiche, come Venere e Cleopatra, o a mostrarle semisvestite nel ritratto stesso, come per Ortensia Mancini, alla lunga costò al pittore l’esilio da Roma. In viaggio prima a Milano e poi a Torino, dove restò fra il 1682 e il 1684, prima di approdare a Parigi, Voet si dedicò incessantemente alle serie delle belle, a questo punto diffuse in tutte le corti, in parallelo con le ladies britanniche di Peter Lely e quelle francesi dei fratelli Mignard. Intanto, nella poesia marinista che celebrava a colpi di metafora il rapporto e la gara continua fra natura e arte, i ritratti delle belle donne erano cantati come potenti e a volte devastanti veicoli del sentimento amoroso. Le fattezze della donna amata, così efficacemente trasmesse da artefici straordinari, scatenavano passione, desiderio e sofferenza nell’animo del poeta innamorato, e quanto e forse di più della donna in carne e ossa, l’“adombrata beltà” era in grado di adombrare il cuore.
L’abitudine di collezionare e esporre le bellezze contemporanee, come il paragone fra la bellezza vera e quella dipinta, aveva radici cinquecentesche, ancora oggi testimoniate dalle medicee Belle di Artimino e da documenti e carteggi che testimoniano del desiderio di signori italiani, Vincenzo Gonzaga per esempio, desiderosi di far eseguire ritratti delle donne più belle in tutte le principali città italiane. Fin dalla fine del Cinquecento inoltre, a ben leggere gli inventari delle principali collezioni romane, da quella Farnese, a quella del cardinal nipote di Clemente VIII, Pietro Aldobrandini, a quella di Scipione Borghese, è evidente la presenza di stanze che contenevano quasi esclusivamente ritratti femminili dipinti da Scipione Pulzone, da Jacopo Zucchi, da Domenichino.
Nella villa di Scipione Borghese l’accesso alla stanza che conteneva quaranta ritratti di belle donne era sorvegliato da due quadri raffiguranti Venere nuda e sdraiata, in un’ideale paragone fra la dea della bellezza e dell’amore e le bellezze contemporanee.
I Farnese, d’altronde, vantavano fra le loro antenate la famosa Giulia, detta “la bella”, quasi per antonomasia, alle origini delle fortune familiari per la sua relazione con il pontefice Alessandro VI Borgia, cominciata secondo gli storici quando Giulia aveva sedici anni e il futuro pontefice sessanta. Al centro di trame di potere per più di un decennio alla fine del Quattrocento, Giulia era un personaggio ancora celebre e paradigmatico agli inizi del XVII secolo, quando da Roma si propone alla corte di Mantova come “cosa singolare” per una galleria, addirittura un lacerto di affresco che avrebbe raffigurato la Farnese come bellissima Madonna col bambino. Alla fine viene eseguita per Ferdinando IV una copia di questo celebre “ritratto” e l’emissario dei Gonzaga a Roma invita il duca a non meravigliarsi che l’amante del Papa avesse prestato le fattezze alla Vergine, “perché a Roma molte cose che non stanno bene si coprono col manto della religione e la magior parte delle sante che si dipingono sono figure di donne che o furono o sono”.
Come dimostrato da Barbara Furlotti riscoprendo questo carteggio, la fama della Bella Giulia travalicava i limiti della cronaca familiare, della storia politica, del ritratto sentimentale e si insinuava addirittura nelle immagini sacre.