Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  dicembre 30 Sabato calendario

Il Duce come un divo da reality. La seconda volta è una farsa

Come assomiglia a Benito Mussolini, con il suo orbace, i suoi stivali, il suo cranio rasato, la sua inconfondibile mascella volitiva, quell’uomo tutto impolverato che viene catapultato chissà come in un centralissimo parco romano in una mattinata di sole del 2017, ben settantadue anni dopo la sua morte, quando lo appesero a testa in giù da un gancio di Piazzale Loreto, il cadavere suo e della sua Claretta Petacci scempiati da una folla inferocita. 
I bambini di colore, romani acquisiti che indossano la maglietta con il numero 10 di Francesco Totti e hanno adottato la parlata capitolina, nemmeno se ne accorgono, non sanno neanche chi sia questo Benito Mussolini. La parola «Duce», poi, non evoca niente, non l’hanno mai sentita in famiglia. Ma quello strano tipo vestito in modo assurdo parla proprio come Mussolini. Sarà Mussolini, o è un suo sosia buontempone? Al risveglio, arrivato sulla terra, il «simil-Mussolini» vede tutti quegli africani nel cuore di Roma e si domanda sbigottito se per caso «siamo ad Addis Abeba» o se, peggio, «gli abissini» hanno colonizzato l’Italia. Non la prende bene, il «simil-Mussolini», con questa promiscuità etnica, questa mescolanza delle razze. Ma se invece fosse proprio il Lui del «quando c’era Lui» ancora rimpianto da una parte degli italiani. Se fosse tornato Benito Mussolini? «Sono tornato» è infatti il titolo del film che la Vision Distribution e l’Indiana mandano al cinema ai primi di febbraio e che dopo un po’ di mesi sarà trasmesso sugli schermi televisivi di Sky per la regia di Luca Miniero, con Massimo Popolizio nelle vesti del Mussolini redivivo, e Frank Matano in quelle del giornalista che lo introduce nel mondo mediatico, cialtrone e scintillante. L’evento politico-spettacolare del 2018, in cui si mischieranno paure e preoccupazioni, come se il cinema fosse il termometro di una febbre politica che non accenna a diminuire.
Scenario inquietante, temono. Il «Sono tornato» tedesco, sul cui modello si è mossa la versione italiana, ha già creato in Germania sbigottimento. Quell’Hitler redivivo ha scatenato tra gli spettatori sentimenti orrendi che sembravano sepolti nella spazzatura del male. Qualche tedesco, ignaro di trovarsi nel mezzo di una fiction, ne ha anche tratto conforto per manifestare l’indicibile, il rimpianto dei lager nientemeno. E quando è entrata in scena l’anziana signora ebrea che riconosce Hitler, e grida la sua rabbia e il suo dolore, il pubblico si è ammutolito sgomento. Ma davvero può tornare Hitler? E che ne sarà di questo mondo, di una democrazia fragile e vulnerabile, se la fiction fosse realtà, terribile, materialissima realtà? E lo stesso per Mussolini. Le «democrazie in putrefazione», dice a un certo punto lui. «Una dittatura», è il sogno di un italiano contento di veder tornare il Duce. Ma stavolta, aggiunge, «una dittatura libera, un partito, al massimo due». Una confusione mentale terribile. Ma che racconta il disfacimento delle poche certezze su cui si è costruita la nostra gracile e ancora giovane democrazia. Un esperimento antropologico, con questo film mutuato dalla Germania ma realizzato con uno spirito tutto diverso, molto italiano, molto impostato sul registro ironico e autoironico. Un film che non è solo un film, ma annusa umori e malumori che attraversano la nostra comunità sfilacciata e frastornata, ed è dunque destinato a creare inquietudine, tra l’altro piombando, potenza del destino, nel cuore di una campagna elettorale di fuoco, e una corrente xenofoba che alimenta intolleranze, impulsi autoritari, violenze.
C’è da averne paura? In «Sono tornato» l’inquietudine, almeno all’apparenza, si stempera, e si ha la netta sensazione che una risata seppellirà il Duce che viene guardato con gentile stupore da un macellaio toscano a cui Mussolini offre uno sproloquio sulla purezza delle razze, prendendo a simbolo quella della chianina da mangiare. Mussolini torna sì, ma crea simpatia, curiosità da fan di un reality: non della realtà, di un reality. Guardandolo per strada, un ragazzino romano si produce in una battuta alla Ennio Flaiano: «pare Claudio Bisio». Il Mussolini redivivo è un po’ un fenomeno da baraccone, un formidabile personaggio di un format televisivo destinato a un successo travolgente.
Massimo Popolizio, aiutato dagli sceneggiatori Miniero e Nicola Guaglianone, offre al suo Mussolini un repertorio di battute e di situazioni che spiazzano, creano un cortocircuito tra la modernità e l’arcaicità di una figura storica del passato. Vede il giornalista Canaletti interpretato da Frank Matano armeggiare goffamente con le parole di corteggiamento dal suo WhatsApp e suggerisce battute virilmente seduttive con quello che chiama «cablogramma». Ascolta estasiato alla radio la canzone di Toto Cotugno sull’«italiano vero», ma sobbalza costernato sul «partigiano come Presidente». Quando deve trovare una password, essendo tutte quelle da lui amate, «Duce», «Mussolini» in primis, già occupate, vorrebbe un «onore e rispetto», ma la segretaria della tv esclama: «è di Garko». Quando ripara dentro un’edicola gestita da una coppia di gay vorrebbe chiedere aiuto perché «ostaggio di due pederasti».
I responsabili della televisione, a cominciare dai personaggi di Stefania Rocca e Gioele Dix che si massacrano usando il «Duce» nella competitività dei ruoli all’interno dei vertici della tv, giocano cinicamente su un personaggio che sbancherà l’audience. Alzano il livello della «scorrettezza», non vogliono autocensurare il capo del fascismo che ritorna su questa terra e puntano proprio sulle battute più esplicitamente fasciste per creare consenso. Quel genio della comunicazione che fu il vero Mussolini diventa dell’apparato comunicativo lo zimbello da manipolare. Che poi subirà un tracollo, in modo inatteso, con un episodio che sembra marginale, uno dei tanti, ma sarà l’inizio della fine. E di una rinascita. Qui l’inquietudine si riacutizza. Quando Mussolini nel finale va in giro su una macchina d’epoca decappottabile, una scena con comparse vere, non attori, dai marciapiedi si alzano numerosi saluti romani. Ma anche qualche pugno chiuso, e qualche gestaccio. Un film nel film, che racconta le ambiguità, le nostalgie, le debolezze in cui siamo ancora imprigionati. E che tornano sempre. Come è tornato Lui, il nuovo grande divo della tv.